18 gennaio 2009

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Tesi di laurea in Psicologia di Serafina Scannone

Con la stesura di questo lavoro, abbiamo cercato di mettere in luce parte del fenomeno della violenza femminile che per troppo tempo è rimasta nascosta dietro vecchi stereotipi.
La ricerca bibliografica non è stata semplice, perché prevale , tutt’oggi nella nostra società, la figura della donna come vittima di violenza da parte dell’uomo, che sia essa domestica o esterna all’ambiente familiare. Negli ultimi anni, però, sono stati molti i titoli di giornali che ci hanno comunicato di omicidi o atti di violenza da parte di donne, ecco perché l’obiettivo del nostro lavoro è analizzare la violenza femminile comparandola quantitativamente e qualitativamente con quella maschile e dare risalto ad alcune forme di violenza estrema delle donne.

Crediamo sia utile, innanzitutto, dare una definizione di aggressività, secondo il paradigma:

· PSICOANALITICO: l’aggressività è la tendenza o l’insieme delle tendenze che si attuano in condotte reali o fantasmatiche, con lo scopo di danneggiare un altro, demolirlo, umiliarlo, ecc. (Laplanche J., Pontalis J.B.,1975);

· COGNITIVO-COMPORTAMENTALE: l’aggressività è intesa come modalità non assertiva di interagire con uno o più interlocutori attraverso la quale si tenta di imporre i propri pensieri, opinioni, sentimenti ed emozioni, o realizzare desideri propri a spese di quelli altrui. Secondo questo paradigma, nell’aggressività manca la capacità di prevedere conseguenze negative a lungo termine che ne derivano per i rapporti sociali (Borgo S. e coll., 2001);

· BIOPSICOSOCIALE: l’aggressività è un comportamento diretto, da un organismo verso un obiettivo, che ha come conseguenza un danno (Renfrew J., 1997);

· PSICHIATRICO: si definisce aggressività qualsiasi forma di comportamento diretto al fine di nuocere o procurare lesioni a un’altra persona, motivata a evitare tale trattamento. Quindi, l’aggressività implica l’intenzione di provocare del male nell’altra persona (Kaplan H. e coll.,1997).
Il crimine al femminile risulta, secondo le statistiche più recenti, da sei a otto volte minore di quello maschile. Questo dato non riguarda soltanto la nostra penisola, ma trova riscontro in quasi tutti i Paesi, anche quelli con culture e mentalità differenti da quella occidentale. La disparità quantitativa tra delinquenza femminile e maschile è stata riscontrata fin dai primi studi criminologici che si sono occupati del problema.
Della minor incidenza statistica della criminalità femminile, sono state fornite molteplici chiavi interpretative, delle quali si può già anticipare che nessuna di queste ipotesi si è poi, rivelata esauriente. Bisogna considerare che la minor criminalità della donna è più apparente che reale, perché una certa parte delle condotte criminose femminili non è rivelata: ad esempio è stato ipotizzato che in caso di concorso o di cooperazione materiale o istigazione al delitto, la partecipazione della donna è più facilmente mascherata dal ruolo di secondo piano che le viene attribuito, oltre che dall’atteggiamento omertoso e di protezione dell’uomo nei confronti della donna (Smart, C.,1981).
Fin dagli studi di Cesare Lombroso, autore del libro :”La donna delinquente”, è stato ritenuto significativo, nel rendere ragione dell’inferiorità della criminalità femminile, il fatto che la prostituzione offrisse alla donna una modalità di esprimere un comportamento disadattato come quello criminoso, senza essere, come quest’ultimo, perseguibile penalmente. Mentre nell’uomo l’ambiente e la personalità anomali favoriscono il comportamento delittuoso, gli stessi fattori nella donna, la indirizzano verso una condotta parimenti deviante, ma non antigiuridica, come la prostituzione (Smart C., 1981).
Sono state avanzate, anche, interpretazioni psicologiche per spiegare il fenomeno: vi sarebbe una maggior tendenza nella donna a tradurre in senso nevrotico la conflittualità provocata da fattori ambientali disturbanti; nell’uomo gli stessi fattori agirebbero in senso alloplastico, cioè risolvono la tensione con il passaggio all’azione. Gli uomini sono sempre stati più violenti, più impulsivi, hanno ucciso in accessi di rabbia, in risse, in raptus alcolici, nel corso di rapine, per commissione. Hanno ucciso per ambizione, rivalità, perdite al gioco, dopo una sconfitta (ibidem).
Comunque non si è ancora riusciti a dare risposta a questa domanda: essendo così “mostruose”, perché sono in minoranza rispetto agli uomini ? Il criminologo Pollak O. (1961) ha parlato di mascheramento dei crimini femminili dovuti ad un comportamento complice, volontario o involontario maschile. Questo comportamento è dovuto al ribaltamento del ruolo sociale nei confronti delle donne . Nel Medio Evo bastava il minimo sospetto perché una donna finisse al rogo. Oggi invece si è arrivati all’effetto contrario, e cioè si ha clemenza anche per i casi più efferati e persino per coloro che uccidono i propri figli (caso Smith).
Secondo Lombroso se si contavano le prostitute e le donne delinquenti, unite assieme formavano una percentuale più alta della delinquenza maschile. Tale teoria, è definita da alcuni, inaffidabile visto che i dati, a cui si riferisce il padre della Facoltà di Antropologia Criminale di Torino, sono di quasi cento anni fa e che oggi la prostituzione è un reato tollerato e giustificato. Addirittura è giusto considerare la prostituta, finché non commette reati contro il patrimonio o contro la persona, come una vittima della criminalità organizzata o ancora, se “libera professionista”, come persona affetta da disturbi mentali che non intaccano la facoltà di intendere e di volere, ma solamente la propria moralità (Smart C., 1981). Le loro azioni sono fuori dal normale, è difficile considerarle come opera di un essere umano, ma alla fine la società non riesce a condannarle fino in fondo.
Durante il percorso di questa ricerca, non mi sono mai imbattuta in donne prosciolte dall’accusa di omicidio per vizi di mente o assolte perché giustificate. Tutte quante sono state condannate all’ergastolo o a morte o alla pena prevista dal codice; unica eccezione è Leonarda Cianciulli che venne condannata a 30 anni di manicomio criminale per seminfermità mentale e Vania Robuschi, condannata a 10 anni di reclusione, poi ridotti a 3 ed infine amnistiata. Sarebbe interessante cercare di capire come mai, le uniche due donne serial killer italiane, sono state condannate a pene così lievi.
La differenza tra crimini maschili e femminili, si riscontra, anche, per le motivazioni che spingono a commettere reati gravi: i maschi sono impegnati in omicidi “strumentali”, legati alla delinquenza organizzata, gli omicidi femminili si verificano nell’ambiente domestico, le vittime diventano i familiari (Tani C., 1998).
I motivi dei delitti commessi dalle donne, a parte quello economico, sono state di solito le grandi passioni: odio, amore, vendetta. Per amore di un uomo uccidevano il padre tiranno o il marito, per vendetta e quindi odio uccidevano l'amante che le tradiva o le abbandonava. Ormai i moventi delle assassine sono svariati come quelli degli assassini: denaro, vendetta, potere, eseguire degli ordini, delusione, piacere, autodifesa, psicopatia, depravazione, rivalità (ibidem).
Le donne che uccidevano trovavano soluzioni estreme a problemi con cui migliaia di donne convivevano in maniera pacifica ogni giorno.
Rudyard Kipling ha scritto che la femmina di ogni specie animale è più implacabile del maschio. L’omicidio femminile veniva pensato a lungo e la donna non rinunciava mai, neppure conoscendo perfettamente i rischi che correva (Kipling R., 1987). La donna era più lucida, determinata nel delitto degli uomini. Il movente più consueto nel passato e soprattutto nel passato inglese, durante l'epoca vittoriana, era il desiderio di liberarsi del proprio marito. Erano mariti traditori, possessivi, gelosi che tenevano le proprie mogli nell'assoluta dipendenza anche economica. Succedeva che finalmente la donna incontrava l'amore e per quell'amore era disposta a fare di tutto, anche ad uccidere.
La donna era pienamente consapevole delle conseguenze penali (la morte) nel caso fosse stata scoperta ma non rinunciava, la passione era più forte di qualsiasi altra cosa. Preferiva l'idea della morte all'idea della rinuncia (Tani C.,1998).
Ma ci sono sempre state anche donne che hanno ucciso per il denaro o per il semplice desiderio di sperimentare il proprio potere di vita e di morte. Se le donne che uccidevano i mariti o i figli erano definite mostri, queste donne erano considerate uomini. I loro erano delitti maschili.
Il racconti di vita delle donne omicide dimostra che gran parte di loro non sono affatto donne comuni, alcune hanno avuto un’infanzia drammatica, altre hanno ucciso perché provocate per lungo tempo, alcune soffrivano di sdoppiamento della personalità, altre erano succubi di passioni indomabili, altre ancora erano spinte da una naturale propensione all’omicidio. In ogni caso non si è mai trattato di donne comuni (Tani C, op.citata).
[Naturalmente sarebbe arduo definire anche gli uomini omicidi come “uomini comuni – n.d.r.].
Le donne hanno sempre avuto meno interesse per certe passioni che hanno mosso gli uomini come l’ambizione, il gioco, l’alcol, la sconfitta. Quindi moventi di questo genere sono meno comuni nei delitti femminili.
Sicuramente invece lo sono la cupidigia e l’amore, la gelosia e la vendetta. In genere però le donne commettono delitti per cupidigia insieme all’uomo, sia esso il marito o l’amante (Tani C.,1998).
Attualmente, oltre ai delitti con movente passionale, la tipologia di reato più frequente è il furto, lo spaccio, i reati connessi allo sfruttamento della prostituzione, soprattutto nel Sud–Italia (C.G.M Calabria e Basilicata,2006).
Da uno studio effettuato dal CEIPA (1995) sono emersi i differenti comportamenti delle donne e degli uomini, in situazioni in cui il coinvolgimento emotivo-affettivo riguardava oggetti primari interni al Sé, con le donne capaci di esprimere l’agito aggressivo quasi esclusivamente verso i figli, manifestando con ciò atteggiamenti diretti verso l’interno, di tipo introversivo.
Nell’uomo, invece, pur nella maggiore omogeneità del tipo di azione violenta, emerge prevalentemente l’aggressività riferita verso la propria figura materna, quindi verso un vissuto apparentemente ormai esterno all’Io, nell’ottica delle relazioni oggettuali primarie.
La ricerca, di tipo descrittivo-comparativo, è stata effettuata su 170 casi di reati rispetto ai quali era stata disposta perizia psichiatrica in relazione alla capacità o incapacità di intendere e/o di volere.Questi casi, tratti dalla consultazione degli archivi ANSA e Cassazione nel periodo compreso tra il 1978 e il 1994, evidenziavano il fatto che il 95% circa dei dati raccolti (163), erano riferibili a reati contro la persona, così suddivisi:



La comparazione fra i gruppi maschile e femminile evidenziava sia una differenza quantitativa relativamente al reato (78% maschi - 22% femmine), sia una qualitativa, in quanto negli uomini era nettamente prevalente il reato di omicidio mentre nelle donne emergevano significativamente i reati di figlicidio e infanticidio (Tab. 2): Dalla lettura dei dati (Tab. 2) ci sembrava interessante il fatto che omicidi in cui esisteva una diretta relazione fra autore e vittima (52 casi), caratterizzata da un forte vincolo emotivo-affettivo primario (infanticidio, figlicidio, matricidio, parricidio, parenticidio e fratricidio), andavano ad equilibrare quantitativamente i gruppi maschile e femminile.
A questo punto sono state evidenziate le differenze qualitative fra i due gruppi di riferimento (maschi femmine) rispetto questo tipo di reato, al fine di analizzare, in riferimento al gruppo scelto, le modalità intrapsichiche dell’uomo e della donna.
Da sottolineare il fatto che, come già affermato precedentemente, l'omicidio è da considerarsi come reazione o impulso violento e distruttivo diretto contro figure non coinvolgenti dal punto di vista sessuale ma primarie nei vissuti familiari, ovvero all'interno del proprio nucleo familiare d'origine.
Volutamente, non sono stati presi in considerazione i delitti caratterizzati da legami di natura sessuale (uxoricidio, violenza carnale e omicidi di partner sessuale) in quanto avrebbero fuorviato la ricerca con l’interferenza di elementi secondari in relazione al legame oggettuale primario.
Sui 52 casi il 54% degli autori del reato erano maschi e il 46% femmine, di età compresa fra i 18 e i 35 anni (48% maschi e 58% femmine) e fra i 36 e i 55 anni (27% maschi e 22% femmine).Nella tabella che segue si possono osservare le differenze all’interno dei gruppi uomini e donne, in frequenza numerica e percentuale, rispetto ai reati commessi: Ciò che emerge immediatamente all’evidenza è che, nel gruppo femminile, elevatissimi risultano i reati relativi al figlicidio e all’infanticidio (91%) mentre risultano totalmente assenti i reati relativi al parricidio e al fratricidio, e scarsamente significativi quelli relativi al parenticidio e matricidio (8%).
Per quanto riguarda il gruppo maschile la percentuale dei reati sembra più equamente distribuita, con una punta riferita al matricidio. Soltanto il reato dell’infanticidio risulta essere totalmente assente.
I reati di figlicidio e infanticidio, elevatissimi come abbiamo visto nel gruppo femminile, in questo nel loro totale non raggiungono frequenze superiori al 18%.
Come risposta giuridica in base all’eventuale applicazione degli Artt. 88 e 89, riferiti a questi tipi
di reati, abbiamo ricavato che nel 69% dei casi gli autori dei reati erano stati giudicati infermi di mente e, quindi, incapaci di intendere e di volere, nel 17 % semi-infermi di mente e, quindi, con capacità ridotta di intendere e di volere, mentre nel 13 % dei casi il giudizio era stato di capacità di intendere e di volere.L’attribuzione dell’imputabilità o inimputabilità suddivisa per reato specifico ha evidenziato i seguenti dati: Analizzando i dati emersi dalla tabella 4 si può notare che l’Art. 88 è stato applicato molto frequentemente per quanto riguarda i reati di figlicidio, infanticidio, fratricidio e matricidio. Per quanto riguarda il parenticidio più o meno equivalente è stata la distribuzione degli Art. 88 e 89, mentre nei casi di parricidio abbiamo una prevalenza nel giudicare capaci di intendere e di volere gli autori dei reati.Come si può osservare dai dati successivi (Tab. 5) la donna è giudicata totalmente incapace di intendere e di volere nell’83% (art. 88 c.p.) dei casi considerati, mentre viene definita con capacità ridotte nel 17% dei casi (art. 89 c.p.) e mai totalmente imputabile; negli uomini, il giudizio sull’imputabilità appare maggiormente distribuito rispetto alle tre possibilità, con una punta in elevazione per ciò che concerne l’incapacità di intendere e di volere, con frequenze percentuali comunque nettamente inferiori in relazione al gruppo delle donne (art. 88 maschi 57% / art. 88 femmine 83%).
Analizzando l’orientamento nel giudizio sull’imputabilità maschi - femmine (Tab. 5), riferito ad alcuni tipi di reati, si può osservare che per quanto riguarda il figlicidio le donne venivano considerate incapaci di intendere e di volere nell’85% dei casi, mentre negli uomini la frequenza scendeva al 60%; inoltre, le donne non erano mai giudicate capaci di intendere e di volere, mentre gli uomini risultavano imputabili nel 40% dei casi esaminati.
Nel matricidio - assieme al parenticidio reato scarsamente commesso dalle donne del nostro gruppo – gli uomini venivano definiti inimputabili e imputabili nella misura del 67% e 33%, mentre nel parenticidio il giudizio sull’imputabilità risultava equamente distribuito fra totale infermità mentale e semi-infermità.
Il gruppo femminile considerato, non ha commesso i reati di parricidio e fratricidio, mentre gli uomini venivano considerati prevalentemente capaci di intendere e di volere per il reato di parricidio, giudizio inverso rispetto al reato di fratricidio dove mai erano considerati capaci di intendere e di volere ed anzi prevaleva nettamente il giudizio di inimputabilità.
Infine, per ciò che riguarda l’infanticidio (reato non presente nel nostro gruppo maschile ) le donne erano considerate totalmente incapaci di intendere e di volere in misura molto elevata, mentre in nessun caso era stata attribuita la completa imputabilità.
La casistica considerata, non esaustiva e certamente non ampia rispetto alla complessità del fenomeno, consente di avanzare conclusioni provvisorie e parziali lasciando aperte molte ipotesi e possibilità di successivi riscontri.
L’osservazione di tale tipologia di reati, dove fondamentale appare il rapporto autore-vittima sfociato, attraverso il crimine, nella distruzione dell’oggetto d’amore, ci offre l’opportunità di alcune considerazioni:
- più è emotivamente significativo il legame autore-vittima, più aumentano i reati violenti delle donne (dal 22% del gruppo generale, al 46% del gruppo scelto);
- l’aumento di tali reati è interessante al punto che nel gruppo scelto la differenza quantitativa tra maschi e femmine è esigua e trascurabile (54% maschi - 46% femmine);
- la differenza fra gruppo maschile e gruppo femminile appare esclusivamente qualitativa per i reati considerati.

Con questo lavoro, abbiamo cercato di analizzare parte del fenomeno della criminalità femminile che riteniamo essere in crescente nella nostra società, in particolare ci siamo occupati di analizzare la violenza femminile nei confronti del proprio coniuge e quindi anche della conflittualità della coppia che porta a fenomeni delittuosi.
CRIMINALITA’ FEMMINILE
Premessa

Quando si parla, si studia, si analizza e s’interpreta il comportamento femminile, sembra prevalere la scelta di considerare la donna come un soggetto separato, e il mondo femminile come un contesto dotato di una propria specificità, che si studia come realtà a parte.
In questo tipo d’approccio i tentativi di spiegazione della specificità femminile si sono di solito risolti nell’enfatizzare la superiorità/inferiorità come chiave di confronto tra i due sessi. Ed ancora oggi molte questioni che riguardano la donna risentono d’antichi pregiudizi.
Solo recentemente si è cercato di analizzare il modo in cui si è andato strutturando storicamente il rapporto donna-uomo, ma soprattutto il rapporto donna-società, per carpire valutazioni e cause d’atteggiamenti e comportamenti che solitamente sono considerati come intrinseci dello specifico femminile.
Nel passato la peculiare posizione della donna nella società, condizionata da un modello totalmente maschile, ha escluso, di fatto, metà della popolazione mondiale dalla vita sociale. In questa condizione, la crescita culturale delle donne è stata solo una chimera, e la differenza sessuale, spacciata per secoli come differenza irriducibile, ha sempre sancito come oggettiva questa presunta inferiorità. Basti ricordare come il patriarcato ha costretto per centinaia d’anni le norme sessuali e i comportamenti di genere su una strada obbligata, comprimendo e reprimendo la sessualità femminile, impostata sulla verginità, fedeltà, castità e fecondità.
Bisogna aspettare l’era moderna, dal XVII secolo in poi, per vedere dei cambiamenti nelle strutture familiari e nelle funzioni della famiglia, e molti anni sono dovuti passare prima che la donna, dal punto di vista giuridico, venisse presa in considerazione nei vari ordinamenti.
La donna, per questi motivi, è stata considerata oggetto di studio solo, quando ha acquisito “visibilità”; così è stato per la criminalità femminile, divenuta seria materia d’indagine e di trattazione teorica solo in epoca recente
.
1.1 I perché della bassa presenza di criminalità femminile
Nel passato la scarsa presenza di donne delinquenti era un dato di fatto che non suscitava interesse: le teorie sulla delinquenza erano orientate alla spiegazione e all’analisi della sola criminalità maschile. La posizione subordinata in cui viveva la donna, la presunzione della sua inferiorità biologica e intellettuale, portava a ritenere il sesso femminile come incapace di condotte autonome e responsabili. Inoltre, i delitti di cui si macchiavano maggiormente le donne erano quelli strettamente legati alla condizione biologica, come la prostituzione, l’infanticidio, l’aborto o altri concepiti a misura d’uomo come l’adulterio, considerato, in Italia, reato unicamente se commesso dalla moglie.
Eclatante, in questo studio, la mancata soluzione del paradosso che esso stesso evidenzia (paradosso irrisolvibile, perché basato su premesse fallaci ed ideologiche), e cioè: se da un lato si afferma che la donna è a lungo vissuta sotto l’oppressione del patriarcato, il quale – come trionfalmente annunciato dalla vulgata femminista – è stato abbattuto; e dall’altro lato si afferma che gli ultimi tempi hanno visto un incremento della criminalità femminile, allora bisognerebbe concludere che: A) o l’asserito patriarcato svolgeva la funzione di occultare agli studiosi un’antica criminalità femminile comunque esistente; B) o la criminalità femminile fu realmente inferiore a quella odierna (nel medesimo contesto occidentale); per cui, in entrambi i casi, si dovrebbe concludere che il patriarcato svolgesse una funzione protettivo-preventiva verso la criminalità femminile (o rispetto alla sua “visibilità” o rispetto al suo essere agita)…
Noi propendiamo per la prima ipotesi: la criminalità femminile è ontologica, cioè è connaturata alla donna quanto lo è all’uomo; il patriarcato ha semplicemente favorito la criminale del passato, assumendola come “inconcepibile”. Ma questa soluzione genera, a sua volta, un altro paradosso: se ancor oggi, in Occidente, le statistiche continuano ad enfatizzare il crimine maschile ed a minimizzare quello femminile (o a giustificarlo, come messo in luce dalla vistosa asimmetria - a favore della donna, naturalmente - sull’applicazione dell’inimputabilità - si vedano questo articolo e l'appendice in calce a quest'altro articolo) si dovrebbe forse concludere che oggi il patriarcato è vivo e vegeto quanto ieri (a tutto vantaggio delle criminali, come s’è visto), e dunque che la trionfale vulgata femminista sarebbe… “un sogno ad occhi aperti”?..
Allora, anche in questo caso suggeriamo una soluzione che – facendo piazza pulita delle apodittiche assunzioni ideologiche – fa andare al loro posto tutti i pezzi del puzzle: l’asserito “patriarcato” è un fenomeno antropologico-culturale più complesso rispetto alla banalizzazione-criminalizzazione di matrice femminista, il quale bilancia una vituperata funzione di “controllo e stabilizzazione” delle caotiche pulsioni femminili con una “cavalleresca” (quanto masochistica) propensione alla “protezione” della donna: anche sotto il profilo della reputazione… [ n.d.r.].


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