8 ottobre 2009

http://www.1%20psychomedia.it/pm/grpind/sepindx1.htm
PSYCHOMEDIA Disagio familiare, Separazioni e Affido dei Minori


Dr. Eugenio Pelizzari
PREFAZIONE di G. Giordano

Pubblichiamo in quest'area dedicata al disagio familiare e minorile l'illuminante articolo del sociologo Eugenio Pelizzari sulla violenza femminile, perché la problematica della violenza nella coppia è ormai un tema fondamentale, per capire cosa accade nelle coppie e nelle famiglie in crisi.
Un tema solo apparentemente chiaro e nitido, Come vedremo, lo studio del dr. Pelizzari, condotto su rigorose basi scientifiche e bibliografiche, giunge infatti a risultati che pretendono assoluta attenzione. E dimostrano che il nodo – sociale e culturale, ma anche giuridico - della violenza “maschile” e di quella “femminile” è un nodo ancora tutto da decifrare, specie nel nostro “habitat” culturale.

Introduzione

Quello della violenza femminile, in generale, e contro i partner in particolare, è uno dei temi tabù della nostra società.
Difficile persino sollevarlo senza essere immediatamente sommersi da una valanga di critiche, se non di accuse di misoginia, avvalorate dal riferimento ad un’ancora più massiccia messe di ricerche e dati che semplicemente negano o, più frequentemente, ignorano questo aspetto.
La situazione in Italia è ulteriormente compromessa dal fatto che non esistono, di fatto, ricerche qualificate e comprensive che indaghino l’esistenza o meno del fenomeno e l’eventuale sua rilevanza.
L’unica ricerca nazionale svolta riguarda esclusivamente la violenza verso le donne (e su essa torneremo), mentre per la violenza femminile siamo in presenza di poche tesi universitarie, scarse ricerche per di più svolte su campioni solitamente molto limitati.
Ben differente è la situazione oltreoceano dove il tema è al centro dell’attenzione almeno a partire dagli anni ’70 del secolo scorso. E può rappresentare, per qualcuno non addentro a queste tematiche, una curiosa sorpresa apprendere che la ricerca ed il dibattito tra i ricercatori non siano affatto concentrati sull’esistenza o meno di una violenza femminile, di cui pochi dubitano, bensì sul tema della simmetria – o meno - tra i due generi nell’esercizio della violenza. Un decisivo input al dibattito, come vedremo già di per sé scottante, è venuto da una ricerca del 2006 del più autorevole organo di ricerca americano, il CDC (Centers for Disease Control),1 che concludeva appunto – come altre ricerche precedenti - su una sostanziale simmetria nella violenza tra i generi, nel caso specifico tra studenti delle scuole superiori americane. Anche su esso torneremo.
Iniziamo, però, dalla più completa bibliografia commentata su questo argomento,
quella del Prof. Martin S. Fiebert.

1. Simmetria di genere nell’esercizio della violenza?
Il prof. Martin S. Fiebert, del Dipartimento di Psicologia della California State University, presenta nel 1997 all’American Psychological Convention tenutasi a Washington (e pubblica nello stesso anno – con un aggiornamento nel 2004 - sulla rivista “Sexuality and Culture2) i risultati di una sua revisione della letteratura scientifica sulla violenza femminile.
Questo lavoro bibliografico, che ottiene una discreta eco, essendo i risultati presentati in clamorosa controtendenza con l’assunto ideologico dominante di quegli anni che la violenza fosse una prerogativa esclusivamente maschile, è stato poi sistematicamente aggiornato dal Prof. Fiebert. L’ultima versione è del febbraio 2009 e, come precisato dall’autore: “esamina 247 lavori accademici: 188 studi empirici e 59 reviews e/o analisi, che dimostrano che le donne sono altrettanto aggressive, o più aggressive, degli uomini nelle loro relazioni con i loro mariti o partner maschi. La dimensione aggregata del campione negli studi recensiti supera il numero di 240.200”.3

Torniamo al lavoro del 1997. Come ci si poteva attendere, molteplici sono state le reazioni e le critiche, che qui di seguito proveremo ad esaminare.
Nel 2002, il prof. Daniel G. Saunders della School of Social Work dell’University of Michigam, pubblica una revisione della letteratura dal significativo titolo: “Le aggressioni da parte di mogli e fidanzate, rappresentano un problema sociale primario? Una revisione della letteratura”.4 In questa revisione, al lavoro di Fiebert viene dedicata una particolare attenzione.
Dicevamo sulla significatività del titolo. Fiebert, ma anche altri ricercatori, nonché le varie associazioni, in specie di padri separati, che si erano occupati della violenza domestica (o, come si dice in Italia, nella “sfera affettiva”) non avevano tra i loro obiettivi di dimostrare che la violenza femminile verso gli uomini fosse un “problema sociale primario”, limitandosi a segnalare che tale violenza esisteva ma non veniva indagata e che, quando lo era, con estrema difficoltà i risultati giungevano all’opinione pubblica. Ulteriore riflesso era ed è, ovviamente, la questione della destinazione dei fondi stanziati per combattere la violenza sulle donne, per i quali si temeva una decurtazione in seguito ai risultati che andavano via via emergendo.

1.1 La simmetria di genere nella rassegna di Martin S. Fiebert
Per cominciare, vale la pena riportare almeno alcuni dei lavori citati da Fiebert; ci soffermeremo su quelli anti-1997 – riportandone uno per anno - da un lato perché mostrano la varietà dei campioni, dei contesti e dei risultati delle varie ricerche ed anche perché è su di essi che si è basata la successiva critica di Saunders.
  • 1977-1978. Viene pubblicato un articolo pionieristico che suggeriva che l’incidenza dei mariti maltrattanti fosse simile a quella delle mogli maltrattanti.5
  • 1979. In un campione di 297 interviste telefoniche (112 uomini, 187 donne) è emerso che il 15,5% degli uomini e l’11,3% delle donne dichiaravano di aver colpito il proprio partner, mentre il 18,6% degli uomini e il 12,7% delle donne dichiaravano di essere state colpite dal proprio partner.6
  • 1980. Basandosi sui dati dell’indagine nazionale statunitense del 1975, l’articolo esamina un sub-campione di 325 coppie violente; emerge che nel 49,5% dei casi sia marito che moglie avevano commesso almeno un atto violento. Mentre i soli mariti erano violenti nel 27,7% dei casi, le sole mogli lo erano nel 22,7% dei casi. I 148 mariti violenti avevano una media di 7,1 atti aggressivi all’anno, contro i 6,8 atti aggressivi annui delle mogli.7 1981. Usando una versione modificata della Conflict Tactic Scale,8 viene esaminata la violenza coniugale in piccoli campioni da sei società: Finlandia, Stati Uniti, Canada, Puerto Rico, Belize e Israele (n = 630). I risultati mostrarono che “in ciascuna società la percentuale di mariti che usava violenza era simile a quella delle mogli violente”. La maggiore eccezione era Puerto Rico, dove gli uomini erano più violenti. Gli autori riportavano inoltre che “Le mogli che usavano violenza... tendevano ad usarla con maggiore frequenza”.9
  • 1982. Usando la Conflict Tactic Scale, una ricerca su un campione di 371 individui (120 maschi, 242 femmine) ha rilevato lo stesso tasso di violenza nella relazione.10
  • 1983. Un’indagine su 461 studenti di college – 168 uomini e 293 donne – relativamente alla violenza nella relazione ha rivelato che il 15% degli uomini ha ammesso di aver maltrattato fisicamente il partner contro il 21% delle donne.11
  • 1984. Un campione di 492 pazienti (275 donne e 217 uomini) che avevano ricevuto assistenza medica in un Pronto Soccorso di un Ospedale di Detroit è stato intervistato relativamente alla propria esperienza di violenza domestica. Fra coloro che hanno risposto il 78% erano Afro-Americani, abitanti in città (90%) e disoccupati (60%). Le vittime di violenza domestica erano state 107 (22%). Pur indicando i risultati che il 38% delle vittime erano uomini ed il 62% donne, questa differenza di genere non raggiungeva la significatività statistica.12
  • 1985. Un’indagine su 325 studenti (165 maschi, 160 femmine) sulla violenza nel corteggiamento, svolta utilizzando la Conflict Tactic Scale ha rilevato percentuali uguali di violenza tra i due generi.13
  • 1986. La somministrazione della Conflict Tactic Scale e di altri strumenti su un campione di 410 studenti universitari – 295 donne e 115 uomini – evidenziava che il 47% dei partecipanti aveva subito una qualche forma di violenza nella propria relazione con il partner. Nella maggior parte dei casi la violenza era stata reciproca. Quando non reciproca, gli uomini erano risultati tre volte più delle donne vittime di violenza da parte della partner. L’esperienza di violenze in relazioni precedenti si era dimostrato il miglior predittore di violenza nella relazione in corso.14
  • 1987. Un campione retribuito di 103 coppie ha completato la Conflict Tactic Scale. Si è riscontrato che mariti e mogli perpetravano una quantità simile di violenza. L’incidenza della violenza, come riportato da entrambi i coniugi, era: marito verso la moglie = 39; moglie verso il marito = 41.15
  • 1988. Esaminando la violenza tra coniugi in un campione rappresentativo di 562 coppie in Calgary, Canada, utilizzando la Conflict Tactic Scale, i ricercatori rilevarono che la violenza grave moglie-verso-marito era più del doppio di quella marito-verso-moglie (10,7% vs. 4,8%). Il tasso di violenza complessivo dei mariti era del 10,3%, quello delle mogli il 13,2%.16
  • 1989. Ventitre coppie di fidanzati nel Regno Unito hanno completato la Conflict Tactic Scale. I risultati indicavano che le donne esercitavano violenza fisica in misura significativamente maggiore rispetto ai loro partner.17
  • 1990. Utilizzando la Conflict Tactic Scale in una vasta ricerca nazionale (n. = 5.474) emerge che le donne iniziano una qualche forma di violenza di coppia nella stessa misura degli uomini.18
  • 1991. Un’indagine su 1.243 messico-americani e 1.149 bianchi non ispanici ha rilevato che le donne confrontate agli uomini avevano riportato più alte percentuali di spingere, tirare oggetti, iniziare la violenza e colpire più di una volta il partner. La differenza di genere raggiungeva significatività statistica solo per la popolazione bianca non ispanica.19
  • 1992. Una ricerca basata sulla Conflict Tactic Scale su 305 studenti – 227 donne e 78 uomini – ha rilevato che 133 donne e 43 uomini avevano subito violenza nel loro relazione presente o recente. Mentre la maggior parte delle violenze nella relazione sono risultate reciproche – 36% riportate dalle donne e 38% dagli uomini – è emerso che le donne iniziavano la violenza verso un partner non violento più frequentemente di quanto facessero gli uomini verso le donne (22% vs. 17%).20
  • 1994. Tre distinti campioni di studenti sono stati indagati nel 1982, 1987 e 1992 con la Conflict Tactic Scale. Gli autori riportano che il tasso di violenza sul partner è più che raddoppiato nei 10 anni. Nel 1992 i dati raccolti da 53 uomini e 106 donne rilevavano che il tasso complessivo di violenza esercitato dagli uomini era del 20,8%, mentre quello perpetrato dalle donne era del 41,5%.21
  • 1995. Un campione di 290 studenti di college – 111 uomini e 179 donne – hanno risposto alla Conflict Tactic Scale. I risultati rilevavano che il 24,3% degli uomini ed il 38,5% delle donne riportavano di avere perpetrato violenza fisica verso i loro partner.22
  • 1996. In un campione rappresentativo di inglesi uomini (n = 894) e donne (n = 971) è emerso, usando una versione modificata della Conflict Tactic Scale, che il 18% degli uomini e il 13% delle donne riportavano di essere stati vittima di violenza fisica in un qualche momento della loro relazione eterosessuale. Con riferimento alla relazione in corso, l’11% degli uomini e il 5% delle donne riportavano di essere stati vittima di violenza.23
  • 1997. Una ricerca su 516 pazienti (233 uomini e 283 donne) di un Reparto di emergenza di New Orleans, utilizzando come strumento l’Index of Spousal Abuse - una scala per misurare la violenza domestica – ha rilevato che il 28% degli uomini e il 33% delle donne (differenza non significativa) erano stati vittima in passato di violenze fisiche, mentre il 20% degli uomini e il 19% delle donne riportavano di essere vittima nel presente di violenza fisica. L’82% dei soggetti erano Afro-Americani. Si registrava una differenza significativa nel numero di donne, rispetto agli uomini, che avevano denunciato abusi alla polizia (19% delle donne, 6% degli uomini).24

  • 1997. Vengono esaminati i dati delle due ricerche nazionali sulla violenza, quella del 1985 per gli Stati Uniti e quella del 1986 per il Canada. In entrambi i Paesi i tassi di violenza delle mogli contro i mariti erano più alti di quelli dei mariti verso le mogli. Nello specifico, l’indice di violenza per gli uomini era del 10,6 in America e del 18,3 in Canada, mentre l’indice di violenza per le donne era del 12,2 in America e del e del 23,5 in Canada.25
1.2 La critica alla simmetria di genere di Saunders
Con l’articolo del 2002, Saunders, in sostanza, intende contestare che la violenza delle donne contro gli uomini sia uguale o superiore a quella degli uomini contro le donne. Sostiene che i Gruppi per la difesa dei diritti degli uomini userebbero strumentalmente le ricerche per rafforzare le loro affermazioni che vi siano preconcetti contro gli uomini e che tali preconcetti influiscano negativamente nelle controversie per la custodia dei figli.26 Sostiene anche che nella rassegna di Fiebert e di altri, gli studi accademici e le varie revisioni della letteratura “sono usati acriticamente, senza segnalare i limiti metodologici descritti negli studi stessi”; senza tenere conto, possiamo annotare, che tale obiezione poteva essere fatta agli studi che davano risultati opposti.
Saunders precisa poi che, a seconda di come la violenza delle donne venga inquadrata, si possono avere esiti diversi. Ad esempio, sostiene, se la violenza delle donne viene inquadrata, dal punto di vista giuridico, principalmente all’interno della logica della “lotta reciproca” (“mutual combat”) ci sarà la probabilità di un più elevato numero di arresti di donne, mentre se la violenza delle donne viene inquadrata come autodifesa o reazione ad anni di maltrattamenti, le leggi e gli interventi andranno sviluppati tenendo in considerazione la storia ed i motivi delle violenze perpetrate dalle donne. Senza una piena comprensione dell’uso da parte delle donne della violenza, dice, si possono avere negative e pesanti conseguenze per le donne stesse. Anche qui è possibile rilevare come l’autore escluda che lo stesso riguardo e la stessa attenzione possano essere rivolti ai motivi che spingono un uomo alla violenza verso la partner, confermando, di fatto, quella presenza di pregiudizi attribuita esclusivamente ai movimenti dei diritti degli uomini.
Saunders dichiara anche che suo obiettivo non è quello di determinare se un genere sia più capace di aggressione di un altro, in quanto vi è già una chiara evidenza di come anche le donne abbiano un potenziale di aggressione. Il suo obiettivo dichiarato è quello di esaminare se i motivi, i contesti e le conseguenze delle aggressioni contro il partner differiscano tra uomo e donna e se sì, in che modo, al fine di verificare se queste differenze facciano della violenza di uno dei due generi un problema prioritario. In particolare l’autore si dichiara interessato a capire quanta parte di violenza sia etichettabile come abusiva e quanta come “giustificabile aggressione o violenza finalizzata alla protezione di sé o di altri.”27
Con queste premesse, Saunders passa ad esaminare le inadeguatezze delle precedenti ricerche che hanno dato come risultato un tasso di violenza delle donne nei confronti del relativo partner superiore o pressoché uguale a quella degli uomini. Lo studio di Fiebert viene criticato in quanto riporterebbe semplicemente i tassi di violenza di uomini e donne, omettendo tre importanti variabili:
a) I motivi di ciascun partner
b) I tassi di avvio della violenza di ciascun partner nella relazione ed in particolari episodi
c) Le conseguenze fisiche e psicologiche della violenza per ciascun partner.
Altri studi, sostiene, dimostrerebbero che le donne hanno conseguenze fisiche più gravi, al punto di dover ricorrere a cure mediche sette volte più che i partner, che inoltre subirebbero sofferenze psicologiche ad un tasso più alto e che resterebbero bloccate all’interno di matrimoni violenti a causa delle disuguaglianze economiche della società americana.
Saunders adduce poi spiegazioni alternative ai risultati di equivalenza dei generi nei tassi di violenza, compreso una critica alla Conflict Tactic Scale che, nella versione originaria, non includeva la costrizione sessuale ed altri casi di violenze gravi. Riporta dati sulla prevalenza degli omicidi di donne in ambito domestico (70% contro il 30% di vittime maschili) e sulle differenze di genere nelle cause di violenza letale. Richiama, in tal senso, uno studio del 195828 che rilevava come il 60% dei mariti assassinati dalla moglie avessero essi stessi “precipitato la propria morte”, avendo le donne agito per auto-difesa.
Relativamente alle differenze di genere nei motivi per violenze non letali, Saunders cita una grande quantità di articoli che dimostrerebbero come l’autodifesa sia la principale motivazione che le donne portano per la violenza da loro esercitata verso il partner e suggerisce che, di conseguenza, aiutare le donne a trovare vie alternative sarà importante, tra le altre cose, anche nella prevenzione della violenza contro gli uomini. D’altro lato, afferma: “azioni che possono apparire come rappresaglia (cercare rabbiosamente di ferire l’altro) o una azione violenta di ritorno possono essere difensive e legalmente giustificabili, specialmente quando la vittima è più piccola dell’aggressore”.
Riguardo a chi dei due partner abbia iniziato la violenza per primo, oltre a criticare il fatto che in alcune ricerche tale domanda non sia stata posta, Saunders critica il fatto che, quando invece era presente, era stata formulata in maniera da rientrare nei concetti di violenza reciproca (“mutual combat”) o di “common couple violence” sostenendo che tali modalità non sono in grado di riflettere casi di violenza grave perpetrati unilateralmente dall’uomo.
Tale considerazione pare, a chi scrive, particolarmente illuminante dei presupposti ideologici di Saunders, il quale assume acriticamente la possibilità di una violenza cieca, al di fuori da qualsiasi schema relazionale - seppur gravemente conflittuale o patologico - come caratteristica propria esclusivamente degli uomini.
Dopo aver esaminato le conseguenze della violenza, ulteriori limiti nello studio di Fiebert e di altri autori, sostenuto il bisogno di maggiori interventi e risorse a favore delle donne, nonché discusso su come le risorse dedicate alle donne maltrattate (battered women) possano costituire un valido strumento per la prevenzione di omicidi di uomini, Saunders arriva alle sue conclusioni.
La prima conclusione è che non vi è un consenso generalizzato nella comunità scientifica sul fatto che la violenza delle donne verso i propri partner costituisca un problema sociale primario, mentre vi è un forte consenso per il contrario. La seconda è che l’affermazione che le donne inizino o perpetrino violenze contro i propri partner più spesso che gli uomini è inaccurata, perché basata su speculazioni spesso ideologiche o ricerche inadeguate. La terza è che, essendo le donne fisicamente e psicologicamente colpite più degli uomini, esse hanno bisogno di maggiori risorse e servizi per far fronte a questa violenza.
Saunders suggerisce, infine, che strumenti come la Conflict Tactic Scale non debbano essere abbandonati, ma richiedano modifiche al fine di tenere in conto le differenze di genere.
Ci siamo soffermati a lungo sullo studio di Saunders in quanto esso riassume molte delle contestazioni che vengono portate alle ricerche e a coloro che sostengono che esista, oltre alla violenza maschile contro le donne, una violenza femminile contro gli uomini, con conseguenze discriminanti sia dal punto di vista degli interventi legislativi che da quello degli interventi di natura sociale e politica rivolti ad arginare il fenomeno.

1.3 La risposta di Murray A. Straus
Alle osservazioni di Saunders fa eco a più riprese – e tra gli altri - Murray A. Straus, dell’Università del New Hampshire, ideatore della Conflict Tactic Scale. Prenderemo qui in esame il contributo del 2007 dal titolo: “Simmetria di genere nella violenza tra partner. L’evidenza, la smentita e le implicazioni per la prevenzione ed il trattamento primari”.29
Straus parte dalla cruciale osservazione che i vari sforzi e le varie iniziative per ridurre la violenza domestica non stanno ottenendo i risultati sperati ed imputa questo fatto alla concettualizzazione che ha letto la violenza fisica tra partner come un fenomeno che vede esclusivamente gli uomini come abusanti e le donne come vittime. Si sforza quindi di dimostrare come vi sia una simmetria trai generi sia nell’esercizio della violenza che nella sua eziologia.
Avendo come riferimento la bibliografia di Fiebert, nella versione del 2004, Straus riporta i principali risultati della meta-analisi svolta da Archer nel 200030 che dimostrano una sostanziale simmetria nell’esercizio della violenza tra uomini e donne.
Varrà la pena di riportarla di seguito (tab. n. 1, pag. 43, del contributo originale).31

Tab. 1 - Esempi tratti dai circa 200 studi che dimostrano simmetria di genere nell’esercizio della violenza


Straus precisa subito che tale simmetria nei tassi di violenza fisica non può essere estesa ad altre forme di abuso ed aggressione: è molto più alta, infatti, la possibilità che i maschi usino la forza fisica per costringere a rapporti sessuali, inoltre gli stupri da parte di sconosciuti sono quasi esclusivamente un crimine maschile. Allo stesso modo i dati relativi alla criminalità indicano che le donne hanno una più alta possibilità di subire fenomeni di stalking e che gli uomini sono più presenti delle donne in casi di omicidio-suicidio con coinvolgimento di minori. Questi eventi - precisa - sono però molto meno frequenti se comparati alla violenza fisica presente nelle relazioni affettive e non avente carattere letale.
Quanto poi agli autori della violenza, Straus sostiene che le ricerche dicono in maniera chiara che la forma prevalente di violenza è quella reciproca, e che la violenza agita solo dalla donna è uguale o maggiore a quella agita solo dall’uomo, anche in casi di violenze gravi quali spinte, lancio di oggetti e soffocamento. Tra gli studi che hanno dato questi risultati Straus richiama quelli di Anderson nel 2002,32 di McCarrol, Ursano, Fan e Newby del 2004,33 di Williams e Frieze del 2005.34
Una delle motivazioni portate alla violenza femminile è quello dell’autodifesa rispetto ad attacchi subiti dal partner. Straus cita una serie di articoli che, usando una varietà di campioni e di tecniche di misurazione, evidenziano invece come l’autodifesa caratterizzi meno del 20% della violenza femminile.
Anche la focalizzazione unilaterale da parte di molti studi sugli aspetti di controllo e di coercizione delle donne da parte degli uomini viene contestata da Straus che, anche qui, cita una serie di ricerche che dimostrano come gli stessi aspetti siano presenti nella violenza femminile, concludendo che “per uomini e donne, le motivazioni più comunemente riportata all’uso della violenza sono coercizione, rabbia e la punizione per cattivi comportamenti del partner”.
Straus cita al proposito, tra altre, le ricerche di Stets e Hammons del 2002 35 e di Kernsmith del 2005 36. In tutti questi studi le principali motivazioni alla violenza erano la rabbia e la coercizione per “disciplinare il partner” e “esercitare il potere”; anche in tutti gli altri fattori di rischio per il manifestarsi della violenza tra partner (povertà, stress, depressione, personalità antisociale ecc.) predomina una simmetria tra maschi e femmine.
L’unica costante differenza riconducibile al genere nella violenza tra partner è che le aggressioni da parte degli uomini causano più ferite e più decessi (anche per questa evidenza l’autore non manca di portare un consistente numero di ricerche di conferma).
Straus passa poi ad esaminare i motivi per cui la violenza tra generi è erroneamente percepita come asimmetrica. Tra questi:
a) L’accettazione culturale del potere maschile e della violenza maschile
b) Gli stereotipi di genere
c) Il dato storico che il movimento per sconfiggere la violenza tra partner sia stato
sviluppato da femministe
d) Il fatto che gli uomini sono la maggioranza nei crimini conosciuti dalla polizia
e) L’empatia e preoccupazione per l’ingiusto trattamento delle donne vittima
Tutti questi fattori, sostiene, hanno portato ad una sistematica negazione dell’evidenza della violenza verso il partner perpetrata dalle donne, con una serie di conseguenze sulla correttezza della ricerca scientifica, delle politiche e quindi dei risultati conseguiti.

Straus esamina anche i metodi frequentemente utilizzati per celare, negare e distorcere i risultati delle ricerche. Su questo aspetto varrà la pena di essere dettagliati. Seguiamo dunque l’argomentare dell’autore.

Metodo 1: Sopprimere le evidenze
È ricondotto essenzialmente al prevalere di atteggiamenti ideologici piuttosto che scientifici, messi in atto per validare premesse a priori od ottenere benefici per le donne maltrattate. Un comportamento tipico è quello di pubblicare esclusivamente dati su maschi abusanti e femmine vittime, omettendo deliberatamente i dati su femmine abusanti e maschi vittime.
Straus cita il caso dell’inchiesta promossa dalla Kentucky Commission on the Status of Women che raccolse dati relativi ad uomini e donne, ma pubblicò solo quelli relativi alla violenza perpetrata da uomini.37
Metodo 2: Evitare di ottenere o analizzare dati sulla violenza femminile
Straus riporta il caso di ricerche nazionali in cui o è stata omessa la raccolta di dati sulla violenza femminile, oppure in cui sono stati raccolti ma non analizzati e pubblicati. Tra questi cita il Canadian National Violence Against Women Survey, che modificò lo strumento di rilevazione (la Conflict Tactic Scale, come abbiamo visto da lui stesso elaborato) al fine di misurare esclusivamente la violenza maschile.38
Metodo 3: Citare solo studi che mostrano la violenza maschile
Un altro dei metodi utilizzati, secondo Straus, per nascondere la simmetria di genere è quello di citare selettivamente studi intesi a dimostrare la violenza maschile, evitando di citare quelli che mostrano il contrario. Riporta il caso delle pubblicazioni del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti che citano quasi sempre il National Crime Victimization Study, che mostra una predominanza maschile nell’uso della violenza,39 omettendo di citare le critiche pubblicate dallo stesso Dipartimento che portarono ad una revisione dell’indagine. Lo stesso vale per le cause della violenza, con particolare riferimento al tema dell’autodifesa, presentata – contro l’evidenza di molti studi – come principale motivo della violenza femminile.
Metodo 4: Concludere che i risultati sconfessano la simmetria di genere quando invece la confermano
Per supportare questa argomentazione Straus cita lo studio di Kernsmith del 2005,40 le cui conclusioni – colpevolizzanti per gli uomini – vanno nella direzione contraria deirisultati nello studio stesso riportati.
Metodo 5: Creare “evidenza” tramite citazione
Straus sostiene che tramite la generica e reiterata citazione di ricerche apparse in giornali scientifici oppure svolte da grandi organizzazioni (viene citata espressamente la World Health Organization) che sostengono il carattere esclusivamente di autodifesa della violenza femminile, contrariamente a quanto mostrano studi successivi e più recenti, si finisce col condizionare il lettore, che accetta questo dato come indiscutibile, nonostante le evidenze diverse.
Metodo 6: Negare fondi a ricerche che potrebbero contraddire l’idea che la dominazione maschile è la causa della violenza tra partner
Straus riporta il caso del Call for Proposal per investigare la violenza tra partner emesso nel 2005 dal National Institute of Justice, il quale esplicitamente precisava che non sarebbero state accettate proposte che investigassero la violenza contro i maschi.
Riporta anche la significativa motivazione fornita al rifiuto, cioè quella di “considerare la violenza in una relazione come un problema ‘umano’ di aggressione e non un problema gender-based”.
Metodo 7: Discriminare, minacciare e penalizzare i ricercatori che producono evidenza che contraddice le teorie femministe
Anche di questo metodo, che porta ad una sostanziale auto-censura da parte dei ricercatori, l'autore porta sostanziosi esempi.
Il lavoro di Straus si conclude con una serie di raccomandazioni metodologiche, tra le quali quella di evitare di dare rilievo dominante alla teoria femminista. In particolare poi contesta l’assunto femminista che gli uomini violenti inclusi in programmi di trattamento siano rappresentativi di modelli normativi di dominanza maschile.
Afferma: “L’uso di violenza grave, con conseguenze di ferite fisiche non è la norma per uomini (o donne) nelle società Euro-Americane e gli uomini che perpetrano tale tipo di violenza non sono rappresentativi della popolazione. Tra gli uomini che sono stati arrestati per aggressione alla propria partner, alte percentuali sono di alcolisti o di uomini aventi tendenze all’alcolismo, molti hanno caratteristiche narcisistiche o antisociali, oltre la metà sono cresciuti in famiglie in cui i loro genitori erano fisicamente abusanti o avevano problemi di alcol o droga”. Sostiene che i vari “corsi di rieducazione” dei maschi violenti promossi all’interno del programma BIP (Batter Intervention Programs) non sono sufficienti ad affrontare il problema e che sarebbe necessario invece un orientamento terapeutico, citando molti studi a supporto di questa sua affermazione.
Secondo Straus, ci sono due principi di fondo che devono essere applicati per migliorare l’efficacia dei trattamenti della violenza fra partner; il primo principio è assumere che la maggior parte della violenza tra partner è reciproca; il secondo principio è che i richiami al patriarcato ed ai privilegi maschili, pur importanti come fine in sé, non sono in grado di produrre cambiamenti sostanziali, rappresentando un minore fattore di rischio per la violenza tra in partner, almeno nelle società euro-americane.

2 Altre ricerche sulla violenza femminile. Anche le donne se ne occupano.
Nel 2005 la rivista “Psychology of Women Quarterly” pubblica un numero monografico dedicato interamente alla violenza femminile verso il proprio partner (con indagini anche di aspetti poco trattati come, ad esempio, la violenza tra partner dello stesso sesso). Particolarmente interessante ci pare l’introduzione che Irene Hanson Frieze, dell’Università di Pittsburg, fa all’intero fascicolo.41

L’autrice, dopo avere affermato che la tradizionale visione dell’uomo picchiatore e della donna vittima debba essere rivista alla luce delle ricerche già svolte e di quelle più recenti che dimostrano che “anche le donne possono essere violente verso i loro partner”, svolge il proprio articolo guardando alla storia delle attitudini dei ricercatori relativamente alla violenza tra partner. Sottolinea come la maggior parte delle ricerche condotte negli anni ’70 e ’80 fossero opera di femministe le cui ricerche erano focalizzate sulle violenze maschili e davano una rappresentazione delle donne maltrattate come vittime impotenti dei loro uomini violenti. Evidenzia, però, come un crescente numero di studi abbiano suggerito che questa visione sia troppo ristretta e di come altre modalità e tipi di violenza ed altre forme di aggressione di coppia siano state successivamente identificate.
L’autrice cita lo studio di Anderson, del 2002 che, sulla base di un campione nazionale rappresentativo, ha rilevato che il 10% di tutte le coppie riportavano qualche tipo di violenza reciproca nell’ultimo anno; più dettagliatamente, nel 7% delle coppie entrambi erano violenti, nel 2% delle coppie solo la donna era violenta e nell’1% era violento solo l’uomo.
Uno studio della stessa autrice,42 ha condotto a risultati simili, sempre usando un campione nazionale rappresentativo di 5.505 uomini e donne in stabili relazioni di coppia. Complessivamente, il 18% del campione riportava qualche tipo di violenza nella relazione. Per meglio comprendere le problematiche connesse alla reciprocità e simmetria della violenza, sono stati studiati due tipi di violenza: violenza reciproca e violenza di uno solo dei due partner nella relazione. Circa il 4% del campione ha riportato che sia gli intervistati che i loro partner avevano usato violenza grave, mentre il 5% riportava bassi livelli di violenza reciproca. Più uomini che donne riportavano di essere stati l’oggetto di violenza proveniente da un solo partner, e più donne che uomini riportavano di essere il soggetto violento nella coppia.
Passando poi ad esaminare i predittori della violenza del partner, l’autrice cita diversi studi dai quali emerge che i principali fattori correlati all’uso della violenza risultano essere l’età dei partecipanti (la violenza nella coppia diminuisce con l’aumentare dell’età), precedenti esperienze di maltrattamento (anche infantile), stress ed abuso di alcol, nonché differenze razziali.
Accertato il fatto che le donne possono essere violente verso il proprio partner e che non è raro che siano le donne ad iniziare atti di basso livello di violenza fisica e per alcune donne anche di usare alti livelli di violenza, l’autrice passa in rassegna la letteratura che cerca di spiegare perché ciò accada, ossia perché le donne usino violenza.
L’autrice rileva come la volontà di controllare il partner sia stata spesso riscontrata negli studi sulla violenza maschile, ma precisa come altre ricerche più recenti43 suggeriscano che lo stesso intento di controllo possa esprimersi come violenza tanto negli uomini quanto nelle donne. Frieze riassume così la sua analisi della letteratura: “Primo, la violenza non è necessariamente qualcosa che solo gli uomini fanno alle donne. Entrambi i sessi agiscono un’aggressione fisica verso i loro partner, con le donne che hanno una probabilità sempre più alta di fare ciò rispetto agli uomini. Le differenze di genere sembrano declinare e i livelli generali di aggressione fisica si abbassano con l’aumentare dell’età. Una piccola percentuale di aggressione verso il partner è abbastanza violenta, con gli uomini che hanno una probabilità maggiore di agire azioni di violenza grave che portano a gravi conseguenze fisiche, ma anche
alcune donne lo fanno. La ricerca futura dovrà riconoscere che c’è più di un tipo di violenza tra partner e chiarire meglio i modelli di violenza ed i motivi e le conseguenze dell’uso della violenza tra partner in uomini e donne”.

Alle stesse conclusioni giungono anche altri articoli che sempre più frequentemente affrontano la violenza femminile e le sue cause, nonché i possibili interventi per il trattamento.
Citiamo tra questi la revisione della letteratura di Carney, Buttel e Dutton del 2007,44 di cui ci limitiamo a portare alcune conclusioni.
Gli autori rilevano come l’abuso perpetrato dalle donne all’interno di relazioni affettive sia comune almeno quanto l’abuso maschile, spesso sia dello stesso grado di severità e possa avere conseguenze molto gravi sia per i maschi che per le femmine vittime.
Contrariamente alle iniziali spiegazioni socio-politche, che proponevano che l’uso della violenza da parte delle donne riflettesse principalmente, o esclusivamente, strategie di autodifesa in risposta ad un abuso iniziato dal maschio, si sa ora che le donne commettono abusi unilaterali nei confronti del partner. Inoltre, le donne violente in ambito domestico condividono molte delle caratteristiche proprie dei maschi violenti, compreso simili motivi e simili caratteristiche psico-sociali (aggressioni precedenti, abuso di sostanze, disturbi della personalità ecc.).

Sempre nel 2005 – che pare rappresentare un anno spartiacque nella ricerca sulla violenza femminile - appare un’altro interessante studio, finanziato dal Department of Justice degli Stati Uniti, dal titolo: Rapporto tecnico per “Una disamina empirica della Teoria dell’uso della violenza da parte delle donne nelle relazioni affettive”.45
Lo studio si concentra su alcuni fattori contestuali:
- Vittimizzazione: lo studio esamina la violenza delle donne nel contesto della loro vittimizzazione da parte dei partener maschi;
- Razza/Etnicità: si propone di esaminare il ruolo della razza, dell’appartenenza etnica e della cultura nel modellare l’esperienza delle donne coinvolte in relazioni violente;
- Fattori cognitivi: lo studio esamina le motivazioni delle donne nell’uso di comportamenti violenti e delle strategie che le donne usano per far fronte alla violenza nelle loro relazioni
- Esiti: vengono esaminati gli esiti nei termini di ferite, depressione, disordini da stress traumatico, ansietà e abuso di sostanze.
Il campione era composto da 150 donne afro-americane, 150 latine e 112 bianche.
Già in fase di premessa le autrici sostengono che: “Un approccio femminista, di genere – ossia che ‘usa il genere come una variabile centrale organizzatrice per comprendere il comportamento umano e l’organizzazione sociale è necessario per comprendere la violenza delle donne”. Le premesse ideologiche sono esplicite, ma vale la pena riassumere i principali risultati di questo studio perché, almeno in parte, smentiscono la premessa-guida.
Mediamente il livello economico del campione, selezionato in centri di primo soccorso ed altri luoghi pubblici, si attestava su soglie molto basse. La maggior parte delle donne del campione riceveva assistenza sociale, buoni mensa o pensioni di invalidità. Il 43% erano conviventi non sposate, il 24% erano invece sposate. L’incidenza sia di aver esercitato la violenza che di averla subita è risultata molto alta, come evidenziato nella tabella seguente (tab. 4, pag. 25 del lavoro originario):

Tab. 2 – Abuso – Violenza subita e violenza perpetrata sulla base delle risposte di 412 donne



Oltre a questi dati, che dimostrano come una percentuale più alta di donne avesse commesso violenze moderate e gravi rispetto a quanto fatto dai loro partner, anche nei comportamenti di stalking i valori tra uomini e donne si rivelavano particolarmente significativi. Il 68,4% delle donne sosteneva di avere subito stalking negli ultimi sei mesi, ma non molto minaccioso, mentre per il 16,5% in modo molto minaccioso; il 17% sosteneva di non avere messo in atto comportamenti di stalking verso il partner, nello stesso periodo, mentre l’82,5% affermava di averlo fatto (senza indicazione della gravità).
Relativamente alle motivazioni dell’esercizio della violenza da parte delle donne, lo studio ne rivelava quattro principali:
a) Esercitare il controllo sul partner,
b) autodifesa
c) desiderio di intimidire o ferire il partner
d) gelosia

La volontà di esercitare un controllo sul partner e l’autodifesa erano i due motivi principali, con valori pressoché corrispondenti (0,85 – 0,86 su una scala da 0 = mai, a 4 = quasi sempre). L’uso della violenza per ferire il partner era il motivo riportato come meno comune.
Alcune donne esprimevano “un qualche grado di vergogna per il loro comportamento violento”, altre "erano intimorite dal loro partner”. Un’alta percentuale del campione aveva avuto esperienza di maltrattamenti infantili, violenza grave e abusi sessuali compresi. Il 24% del campione prendeva psicofarmaci e il 69% lottava contro la depressione. Una donna su tre registrava disordini da stress post- traumatico, una su cinque aveva problemi di alcool o di droga.
La conclusione delle ricercatrici è che il report indica che “la stragrande maggioranza di queste donne erano state esse stesse vittime di violenza”, che “la violenza era spesso determinata da differenti motivazioni. Molte donne usavano la violenza in auto-difesa, ma molte anche usano la violenza per controllare il proprio partner. La gelosia era una motivazione frequente per la violenza da parte delle donne”. Singolare poi, che senza aver svolto nessuna ricerca in proposito e comunque senza far riferimento alcuno a ricerche precedenti, le autrici sostengano che “questi dati suggeriscono che il contesto dell’uso della violenza da parte delle donne differisca in molti modi da quello della violenza maschile verso le proprie partner”.
In buona sostanza, questa ricerca, finanziato dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (ma che non ne rappresenta la voce) e a cui si può riconoscere rigore metodologico, può essere fatta rientrare nel punto 4. delle esaminate tecniche indicate da Straus: concludere che i risultati sconfessano la simmetria di genere quando invece la confermano.

Abbiamo già citato, in introduzione, uno studio del CDC, apparso su Morbidity and Mortality Weekly Report del maggio 2006. Data l’autorevolezza della fonte vale a pena di riprenderlo brevemente. L’articolo si intitola “Violenza fisica tra studenti delle scuole superiori , in relazione affettiva. Stati Uniti, 2003”.
Usando i dati del Youth Risk Behavior Survey del 2003, il CDC ha analizzato la prevalenza della violenza fisica tra gli studenti delle Scuole Superiori – coinvolti in una relazione affettiva - in 50 Stati degli Stati Uniti e in associazione con cinque comportamenti a rischio. Riportiamo brevemente i risultati.
Su tutto il campione (14.956 studenti), l’8,9% ha risposto di aver subito qualche forma di vittimizzazione da parte del partner; la prevalenza è risultata molto simile tra maschi (8,9%) e femmine (8,8%), anche per quanto riguarda la gravità (range: da 8.1 a 10.1). La prevalenza di fenomeni di vittimizzazione riportata era superiore tra i neri (13,9%) che tra gli Ispanici (9,3%) e i bianchi (7,0%). L’aver subito violenza o maltrattamenti era maggiore tra i maschi neri (13,7%) che tra i maschi bianchi (6,6%) e più alta nelle femmine nere (14,0%) che in quelle ispaniche (9,2%) e nelle femmine bianche (7,5%).
Si rimanda all’articolo per una disamina della prevalenza dei cinque fattori di rischio tra i partecipanti all’indagine in generale e tra maschi e femmine.

Negli anni 2005-2006, dunque, la situazione della ricerca scientifica sulla violenza domestica o tra partner vede la compresenza di risultati alle volte clamorosamente opposti. E sebbene le ricerche sulla violenza maschile continuino ad essere preponderanti, sempre più numerosi, come abbiamo visto e come vedremo, sono i ricercatori e le ricercatrici che si focalizzano sulla violenza femminile, nonché sui motivi che portano risultati tanto discordanti.

3 Questioni di metodo
Un contributo importante, in questo senso, lo dà Michael P. Johnson, della Pennsylvania
State University.
Johnson sostiene che buona parte degli studi sulla violenza tra generi sono inaffidabili, o almeno ininterpretabili, per il fatto di non distinguere tra i diversi tipi di violenza ed il contesto entro il quale questi si manifestano.46
Johnson distingue quattro tipi di violenza, definiti concettualmente in termini di motivi e comportamenti di controllo del membro violento della coppia, identificati, da un punto di vista operativo, da comportamenti coercitivi che indicano la volontà di esercitare, appunto, un controllo generale sul partner.
Anche Johnson si sofferma sui due principali approcci che hanno orientato la ricerca sulla violenza di genere (l’approccio femminista e quello degli studi di famiglia) che, già nel 199547 egli aveva criticato, partendo dalla clamorosa discrepanza dei risultati, che spiega sulla base dei seguenti fattori:
a) la violenza tra partner non è un fenomeno unitario ma molto sfaccettato
b) i due gruppi di ricercatori usano differenti strategie di campionamento
c) le differenti strategie di campionamento individuano diversi tipi di violenza tra partner
d) questi tipi di violenza differiscono in relazione al genere
Secondo Johnson, a ciò si accompagnano differenze rispetto all’identificazione delle cause, della natura della violenza stessa, dello sviluppo della violenza nel corso della relazione, delle conseguenze e dei tipi di intervento richiesti.

Riguardo alle strategie di campionamento, Johnson rileva come gli studi femministi che dimostrano la prevalenza della violenza maschile usino dati provenienti da agenzie (ospedali, case delle donne, tribunali e ambienti giudiziari o di polizia in genere) dove è normale si registrino percentuali molto alte di violenza maschile grave, mentre gli studi di famiglia, che dimostrano una simmetria di genere nell’esercizio della violenza, si riferiscono ai cosiddetti campioni rappresentativi che, sempre secondo Johnson, presentano spesso dei grossi limiti metodologici ed anche dei veri e propri errori.
Johnson si pone quindi la seguente domanda: “È possibile che esistano due forme qualitativamente diverse di violenza tra partner, una simmetrica tra i generi e sovra-rappresentata nelle indagine più generali, l’altra commessa principalmente dagli uomini e sovra-rappresentata nei casi provenienti dalle agenzie?”.48
Johnson pone dunque la necessità di passare da una impostazione di tipo individuale ad una di tipo diadico. In questa impostazione, un aspetto modellante assume il concetto di “controllo”, individuato quale elemento in grado di offrire strumenti interpretativi in merito alle motivazioni nell’esercizio della violenza.
Se si esamina il comportamento di entrambi i soggetti coinvolti nella relazione e si tiene al centro del modello l’aspetto del controllo, si rende possibile, sostiene Johnson, identificare quattro tipi-base di violenza individuale:
a) Un individuo (maschio o femmina) può essere violento ma non controllante nella relazione con il/la partner, che a sua volta può essere non violento/a, oppure violento/a ma non controllante. È quello che Johnson chiama “situational couple violence”.
b) Un individuo può essere violento e non controllante ma in relazione con un/a partner violento/a e controllante. Johnson chiama questo tipo “violent resistence”.
c) Un/a partner può essere violento/a e controllante in relazione con un/a partner che può essere o non violento/a o violento/a e controllante. È ciò che viene chiamato “intimate terrorism
d) Infine un individuo (maschio o femmina) violento e controllante può essere in relazione con un/a partner anch’esso/a violento/a e controllante. Ciò è stato chiamato “mutual violent control
Abbiamo provato a sintetizzare nella figura seguente le quattro tipologie.

Fig. 1 Tipi di violenza individuale in funzione della volontà di controllo del/la partner



Johnson sostiene che per ottenere tali distinzioni debbono essere poste ad entrambi i membri della coppia domande relativamente ad una varietà di tattiche di controllo, all’interno di un set di dati in grado di includere rappresentanti di ognuno dei quattro tipi.
L’autore sostiene di aver trovato un set di dati rispondente alle esigenze poste da questa sua sistematizzazione nella ricerca svolta nel 1970 da Irene Frieze che intervistava 274 donne, sposate o precedentemente sposate, della Pennsylvania. Individua, dunque, sette tattiche di controllo (minacce, controllo economico, uso di privilegi e punizioni, uso dei figli, isolamento, abuso emotivo, controllo sessuale) e procede all’analisi dei dati.
Ricordiamo che le domande erano rivolte esclusivamente alle donne, che quindi dovevano esprimersi non solo sulla violenza subita ma anche su quella perpetrata.49
Una successiva analisi viene svolta solo sugli individui violenti, ossia coloro che erano stati violenti almeno una volta nella loro relazione (67% dei mariti e 54% delle mogli).
I risultati di questa analisi sono riportati nella tabella seguente (tab. 1, pag. 1.010 del contributo originario).

Tab. 3 - Comportamento violento per genere (Solo individui violenti, come riportato dalle mogli)


La tabella seguente invece, da noi costruita sulla base dei dati riportati nell’articolo, mostra le caratteristiche degli atti violenti maschili nei casi di “intimate terrorism” e “situational couple violence”.

Tab. 4 - Caratteristiche degli atti violenti da parte dei mariti (come riportato dalle mogli)



La violenza degli uomini ricadente sotto l’Intimate terrorism era abbastanza frequente; la mediana di atti violenti in questi matrimoni era 18. La violenza degli uomini era molto meno frequente nel tipo Situational couple, con una mediana di 3 atti violenti. La progressione della violenza avveniva nel 76% dei casi di Intimate terrorism e nel 28% dei casi di Situational couple violence. La conseguenza di ferite gravi era presente nel 76% dei casi di Intimate terrorism e nel 28% dei casi di Situational couple violence.
Infine, nei casi di Intimate terrorism, raramente la moglie aveva risposto con violenza, contrariamente a quanto aveva fatto nei casi di Situational couple violence.
Johnson commenta: “questi dati non lasciano molti dubbi sul fatto che Intimate terrorism e Situational couple violence non sono lo stesso fenomeno”.
Resta a Johnson da verificare se, come da questi ipotizzato, le grandi indagini a campione colgano soprattutto casi di Situational couple violence mentre i campioni provenienti da agenzie rilevino principalmente i casi di Intimate terrorism. I dati - riguardanti ancora una volta solo gli uomini, come riportato dalle mogli - sono riassunti nella tabella seguente (tab. 2, pag. 1.011 del contributo originario).

Tab. 5 - Cosa rileva chi? (Solo mariti violenti, come riportato dalle mogli)


La tabella dimostra che i campioni generali, tipici delle ricerche sulla violenza domestica, includono quasi esclusivamente la Situational couple violence, con solo l’11% della violenza da Intimate terrorism. In forte contrasto, le ricerche che provengono da agenzia quali case delle donne, tribunali e simili, tipiche delle ricerche femministe, rilevano principalmente questo tipo estremo di violenza.
Conclude Johnson: “Qualsiasi approccio scegliamo, penso sia cruciale che noi riconsideriamo le conclusioni che sono state tratte dalla letteratura che abbia evitato di fare queste distinzioni critiche”, consigliando inoltre prudenza su risultati che trattino i quattro tipi di violenza come un singolo fenomeno. Ognuno dei tipi di violenza individuati, infatti, “non può avere uguali cause, traiettorie di sviluppo, conseguenze o prognosi per interventi efficaci. Se vogliamo comprendere la violenza tra partner per intervenire efficacemente nei vari casi, o suggerire politiche di intervento utili, dobbiamo fare queste distinzioni nelle nostre ricerche”.

In ambito anglosassone, dunque, l’insufficienza degli approcci metodologici per rilevare quella che è oramai riconosciuta come violenza “tra i generi” e non “di genere” è oramai ben evidente. La proposta di Johnson è un tentativo di risposta particolarmente interessante, pur con alcuni limiti che lo stesso autore discute nel suo contributo.

Un ulteriore tentativo di costruire una metodologia in grado di dare una visione se non oggettiva, comunque meno contraddittoria e parziale del fenomeno, è offerta da Bell e Naugle, nel 2008.50
Nel loro articolo le due autrici partono da una critica delle diverse teorie sviluppate per indagare la tematica della violenza tra partner per giungere alla proposta di un nuovo modello concettuale.
Le teorie che vengono passate in esame sono:
a) La teoria femminista (Feminist theory)
b) La teoria del potere (Power theory)
c) La teoria dell’apprendimento sociale (Social learning theory)
d) Il modello background/situazionale (Background/situational model)
e) Le teorie della personalità/tipologia (Personality/tipology theories)
Pur riconoscendo ad ognuno di questi approcci, discusso in dettaglio e con abbondanza di citazioni, di avere ottenuto un qualche grado di riscontro empirico, le autrici sostengono che comunque essi si sono dimostrati deficitari, essenzialmente per due motivi. Primo perché nessuno di essi si è dimostrato in grado di catturare e comprendere la complessità delle variabili coinvolte negli episodi di violenza tra partner e, secondo, perché l’impatto che esse hanno avuto sull’efficacia dei costosissimi programmi di prevenzione e trattamento dei casi di violenza tra partner è stato molto limitato, come diversi studi riportano.
Il modello contestuale proposto dalle autrici – al cui articolo si rimanda per una visione più dettagliata, e che del resto non risulta sia stato applicato in alcuna ricerca –, si basa sull’approccio analitico funzionale e comportamentale e prevede le seguenti unità di analisi:

1) Comportamento bersaglio (Target behavior)
Il target behavior è la variabile dipendente del comportamento problematico esaminato. All’interno della violenza tra partner il comportamento problematico può includere tre principali forme di abuso: fisico, sessuale e di aggressione psicologica. La sua definizione dovrebbe tenere in considerazione:
a) tipologia
b) gravità dell’episodio
c) ruolo (vittima o autore dell’episodio).
La definizione delle autrici è limitata al comportamento che include forme medie o gravi di aggressione fisica, ma può essere esteso ad altre forme.

2) Antecedenti (Antecedents)
Sono stimoli od eventi che precedono il comportamento violento (target behavior) ed impattano sulla possibilità che esso si verifichi. Viene fatta una distinzione tra antecedenti statici/distali e prossimali (distal/static e proximal).
Le variabili distali/statiche sono quei fattori remoti nel tempo che non necessariamente hanno una relazione diretta con il comportamento violento ma che possono esservi associati tramite il loro legame con altre variabili ad esso più direttamente connesse. Comprendono:
a) Abuso infantile
b) Psicopatie
c) Aspetti demografici
d) Stile di attaccamento
e) Caratteristiche relazionali
f) Componenti genetiche
Gli antecedenti prossimali includono variabili che sono temporalmente vicine al comportamento violento, sono dipendenti dal contesto ed in genere più variabili nel tempo; si considera abbiano un maggiore impatto diretto sul comportamento violento ed includono:
a) Richieste e domande del partner
b) Conflitti interpersonali (compreso aggressione fisica e verbale)
c) Fattori di stress correnti o recenti

3) Stimoli distintivi (Discriminative Stimuli)
Sono una classe distinta di antecedenti che includono eventi o condizioni la cui presenza anteriormente al comportamento violento segnala la possibilità di un rinforzo del comportamento stesso. La loro presenza può momentaneamente accrescere la possibilità che un comportamento violento possa verificarsi. Tra essi troviamo:
a) Presenza del partner
b) Presenza/assenza di altri
c) Presenza/assenza di figli
d) Luogo (privato o pubblico)
e) Immediata disponibilità/accessibilità di armi
4) Fattori motivanti (Motivating Factors)
Sono costituiti da stimoli, eventi o condizioni che possono temporaneamente cambiare la potenza dei fattori di rinforzo o di depotenziamento del comportamento e che quindi possono impattare sulla probabilità che un comportamento violento sia agito. Tra essi, come la letteratura ha ampiamente riportato, troviamo:
a) Uso di droga e alcol
b) Stress emozionale (incluse rabbia, paura, gelosia)
c) Stress fisico
d) Soddisfazione relazionale

5) Repertorio comportamentale (Behavioral Repertoire)
Il repertorio comportamentale si riferisce ad una serie di competenze/caratteristiche/attitudini che un individuo può agire con competenza, sotto determinate condizioni, per conseguire con successo un obiettivo desiderato. Deficit nel repertorio comportamentale possono sfociare in un aumento di comportamenti inappropriati in ordine al raggiungimento del medesimo obiettivo. Tra questi:
a) Soluzione di problemi (Problem Solving)
b) Risoluzione di conflitti
c) Abilità nel controllo delle emozioni (Emotion Regulation Skills)
d) Abilità nella risoluzione di conflitti nella comunicazione
e) Abilità nella gestione della rabbia
6) Regole verbali (Verbal Rules)
Le Regole verbali sono stimoli verbali - o pregiudizi sociali - in grado di influenzare il comportamento violento descrivendo i possibili effetti nel coinvolgersi in esso. Ad esempio, una persona che segue la regola: “A volte devi essere aggressivo verso il tuo (la tua) partner al fine di risolvere un disaccordo” può indurre questa persona a comportamenti violenti al fine di risolvere il disaccordo, anche se precedenti esperienze in tal senso non si sono rivelate adeguate al proposito.
Tra essi rientrano:
a) Convincimenti/credenze in merito alla violenza
b) Convincimenti/credenze relativamente alla vita di relazione
c) Convincimenti/credenze riguardo alle donne
d) Convincimenti/credenze in merito alla risoluzione non violenta di conflitti
e) Convincimenti/credenze relativamente agli effetti dell’uso di alcol e droga nell’aggressione
7) Conseguenze – Rinforzi (Consequences – reinforcement)
Per rinforzo delle conseguenze si intendono gli esiti di un qualsiasi comportamento che accrescono la possibilità che il comportamento stesso possa ripetersi in futuro in condizioni simili, e possono dunque agire sia nei termini della riduzione che dell’aumento degli atti violenti e della loro gravità.
Tra questi:
a) Riduzione dello stress
b) Fuga dalla discussione
c) Comportamento compiacente del partner
d) Apprezzamento da parte di altri
e) Abbandono della relazione da parte del partner
f) Coinvolgimento della polizia

8) Conseguenze – Punizioni
Si intendono qui gli esiti di un qualsiasi comportamento che determinano la riduzione della possibilità che lo stesso comportamento accada nelle medesime circostanze in futuro.
Tra essi:
a) Arresto e imprigionamento
b) Conclusione della relazione
c) Ferite fisiche
d) Aumento dello stress emotivo
e) Ridotta soddisfazione nella relazione
f) Aumento di critiche da parte di altri

Al di là di un permanente “vizio di fondo”, ben espresso (dal sen fuggito?) dal punto 6c, che ignora totalmente i convincimenti e le credenze verso gli uomini (come se essi fossero ininfluenti o come se la violenza nei loro confronti non esistesse), si è ritenuto di riportare in dettaglio tale proposta metodologica perché, a prescindere dalla sua efficacia, ancora da dimostrare, bene evidenzia l’estrema sfaccettatura e complessità del fenomeno “violenza tra i generi” e la difficoltà di ottenere dati minimamente significativi se tale complessità non viene tenuta in considerazione al momento del disegno di una ricerca che voglia avere carattere di scientificità e che non si basi invece su semplici presupposti ideologici.

4. Violenza e recidività Un altro articolo di estremo interesse, che ci sembra importante segnalare, è quello di Menard, Anderson e Goodbolt.51 Si tratta di un follow-up di 5 anni (dal 2001 al 2005) su un campione di 596 casi di violenza domestica (516 uomini, 80 donne), per determinare non solo l’entità della recidività tra uomini e donne ma anche i fattori che tale recidività favoriscono, la loro possibile caratterizzazione “di genere” e quindi gli interventi necessari e specifici per farvi fronte.

Provenendo i dati dal sistema giudiziario, cui sono giunti tramite formale denuncia, possiamo con sufficiente sicurezza far rientrare questo campione come quello in cui si esplicita principalmente ciò che Johnson chiama “Intimate terrorism”, che è la forma di violenza più controllante e con gli esiti più gravi (vedi p. 13 di questo lavoro).
Applicando a questa popolazione (ricordo di recidivi) raffinati strumenti di elaborazione statistica (t test, chi quadrato, analisi multivariata), le autrici giungono a conclusioni degne di interesse, riassunte nella tabella seguente (e riportata a p. 68 del lavoro originale).

Tabella 6 - Recidività in uomini e donne in un follow-up di 5 anni (2001-2005)

* p < .05.***p < .001.

L’unica variabile demografica che differenziava maschi e femmine era la razza o l’appartenenza etnica, con una maggiore probabilità degli uomini di far parte di un gruppo razziale piuttosto che le donne. Gli uomini più spesso avevano usato violenza alla presenza dei figli (31% vs. 19%) e avevano causato lesioni gravi più delle donne (37% vs. 23%). Alcol, droga e storia di libertà condizionale o per buona condotta erano caratteristiche più presenti negli uomini che nelle donne. Il 3% degli uomini rispetto all’11% delle donne erano stati coinvolti in un arresto di coppia (differenza statisticamente significativa).
Il modello è stato poi applicato, tramite una analisi multivariata, distintamente per uomini e donne. Nel mentre si rimanda al contributo originale per una visione approfondita, ci limiteremo qui a riassumere alcune delle conclusioni cui giungono le autrici:
  • La maggior parte dei recidivi erano uomini (84,5%, contro il 15,5% di donne);
  • Differenti fattori agivano come predittori di recidività tra uomini e donne;
  • Proporzionalmente, più donne che uomini erano state arrestate in un contesto di arresto di coppia; nonostante ciò, nessuna di queste donne era risultata recidiva (contro il 41,7% di recidività negli uomini coinvolti in un arresto di coppia) · In generale la recidività era inferiore nelle donne che negli uomini (19% vs. 48%);
  • Tra gli uomini, importanti fattori di recidività sono stati: appartenenza etnica, disoccupazione, uso di droghe e storia di libertà condizionale e per buona condotta. Soprattutto la disoccupazione si è mostrata rilevante ai fini della recidività negli uomini. La presenza di problemi relativamente all’abuso di alcool non si sono mostrati decisivi, anche se importanti, tra i fattori di recidività, mentre lo è stato l’uso di droghe. La gravità dell’atto di violenza perpetrato verso la partner diminuiva la recidività tra gli uomini.
  • Tra le donne, i fattori predittivi di recidività sono stati il fatto di avere cessato la relazione con il partner vittima e la gravità della violenza originalmente perpetrata verso il partner. Come per gli uomini e confermato da precedenti ricerche, l’uso di droghe aumenta la recidività tra le donne.
  • Per ridurre questo tipo di crimine è necessario prevedere interventi ad hoc che tengano conto delle differenti caratteristiche di uomini e donne, basati sulla storia dell’aggressore, i problemi di abuso di sostanze nonché le forme di offesa.
5. Fattori all’origine della violenza tra partner
Due studi recenti si concentrano sull’influenza di disoccupazione, abuso di alcol e di droghe sull’esercizio della violenza verso il/la partner.
Il primo, pubblicato sulla rivista Addictive Behaviors, esamina la relazione tra violenza ed uso di droghe su un campione di studenti dell’Università di Boston.53
Il campione era composto da 1.197 studenti (513 maschi e 684 femmine), che hanno completato, nel 2006, un questionario on-line. La violenza sessuale è stata misurata tramite due items: 1) Esperienza di contatti fisici (palpeggiamenti e simili) forzati durante l’ultimo anno e 2) Essere stata/o vittima di aggressione sessuale o stupro nell’ultimo anno (si/no). L’item relativo alla violenza fisica chiedeva ai partecipanti se (sì/no) lui o lei avevano subito violenza fisica nell’ultimo anno.
Appositi criteri sono stati utilizzati per misurare l’uso tra i partecipanti di alcol, marijuana e/o cocaina.
Ci limiteremo anche qui, sempre rimandando all’articolo originale per una visione più complessiva, a riassumere alcuni risultati.
  • L’aver subito violenza sessuale era maggiore nelle femmine (7%; n=46/784) che nei maschi (3%; n=14/513). · L’aver subito violenza fisica era maggiore nei maschi (10%; n=51/513) che nelle femmine (3%; n=21/684).
  • I maschi riportavano una più alta probabilità di bere 16-20 drinks a settimana, di sbornie, di fare uso di marijuana e cocaina.
  • I risultati dei modelli di regressione logistica hanno mostrato che tra i maschi, gli aspetti maggiormente correlati al fatto di aver subito violenza fisica sono stati: uso di alcol negli ultimi 30 giorni, sbornie almeno una volta alla settimana negli ultimi 3 mesi, bere 20 o più drinks a settimana negli ultimi 3 mesi, uso di marijuana negli ultimi 30 giorni e l’uso di cocaina negli ultimi 30 giorni.
  • Per le femmine le variabili associate al fatto di aver subito violenza sessuale sono state: qualsiasi uso di alcol negli ultimi 30 giorni, sbornie almeno una volta alla settimana negli ultimi 3 mesi, bere 16 o più drinks a settimana negli ultimi 3 mesi e l’uso di cocaina negli ultimi 30 giorni, come riportato nella tabella seguente (adattamento della tab. 2, pag. 318 dell’articolo originale).
  • Il 70% (7/10) dei maschi ha riportato che stava bevendo e/o facendo uso di droga quando ha subito molestie sessuali e il 55% (28/51) quando ha subito violenza fisica; l’86% (6/7) ha riportato che stava bevendo quando ha subito violenza sessuale/stupro.
  • Tra le femmine, il 39% (12/31) riporta l’uso di alcolici e/o di droghe quando ha subito molestie sessuali, il 70% (19/27) quando ha subito aggressione sessuale/ stupro; il 43% (9/21) dichiarava di star bevendo o facendo uso di sostanze al momento delle violenze fisiche.
Tab. 7 - Relazione tra uso di sostanze violenza sessuale e fisica subita


*Le frequenze per violenza fisica e sessuale rappresentano i casi riportati di violenza sessuale o fisica tra coloro che riportano ciascun tipo di comportamento d’uso di sostanze

Sia maschi (71%; n=5/7) che femmine (78%; n=21/27) hanno riportato alti tassi di uso di alcol e/o droghe da parte degli/delle abusanti durante gli episodi di aggressione sessuale o stupro. L’uso di sostanze risulta associato con l’aumento dei casi di aggressione fisica tra gli studenti maschi, e maggiori rischi di vittimizzazione tra le studentesse.

Approccio diverso utilizza un altro articolo, sempre del 2009, apparso sul Journal of Family Violence.54 In questo caso, gli autori indagano, in un campione di lavoratori maschi dell’industria costruttiva, le possibili relazioni tra problemi di alcolismo e disoccupazione e la violenza tra partner. Per tale ricerca sono stati intervistati, tra l’agosto 2006 e il gennaio 2007, 1.088 lavoratori dell’industria costruttiva della Northern California. Di questi, il 95,6% ha acconsentito a che le loro mogli o partner conviventi venissero contattate. A loro volta, di queste, 927 hanno completato il questionario sottoposto telefonicamente. Da questo totale sono state poi escluse 30 coppie dello stesso sesso e 49 in cui il lavoratore era femmina. Il campione complessivo è dunque risultato composto da 848 coppie.
La violenza tra i partner è stata misurata con la sottoscala relativa alla violenza fisica della Conflict Tactic Scale modificata (CTS2), che pone domande relativamente al manifestarsi di 12 comportamenti che l’intervistato può aver tenuto verso la propria partner e che la relativa partner può aver agito nei suoi confronti.
L’obiettivo, come detto, era di determinare l’influenza della disoccupazione maschile ed i problemi di alcolismo di ognuno dei partner sul rischio di violenza dell’uomo verso la donna (MFPV: Male to Female Partner Violence) e della donna verso l’uomo (FMPV: Female to Male Partner Violence).
I risultati dettagliati sono presentati nelle tabelle da pag. 67 a pag. 70 dell’articolo in esame. Ci limiteremo qui a riassumere le principali evidenze, specificando che utilizzeremo le seguenti sigle (comuni in letteratura) per i due tipi di violenza: MFPV (violenza dell’uomo verso la partner) e FMPV (violenza della donna verso il partner).
  • Circa il 20% delle coppie ha riportato esperienze di MFPV e il 24% ha riportato esperienze di FMPV;
  • Circa il 17% dei maschi e il 10% delle femmine sono stati classificati come aventi problemi con l’alcol;
  • I tassi di MFPV erano il doppio nelle coppie nelle quali l’uomo aveva problemi con l’alcol, rispetto al caso contrario (34% vs. 17%);
  • I tassi di FMPV erano più alti nelle coppie in cui l’uomo aveva problemi con l’alcol rispetto a quelle in cui tale problema non era presente (31% vs. 22%);
  • I tassi di MFPV erano significativamente più alti nelle coppie in cui il maschio era disoccupato rispetto a quelle in cui era occupato (31% vs. 18%);
  • La stragrande maggioranza di atti aggressivi tra i partner può essere classificata come “moderata” (ossia spinte e strattonamenti), rientrando nei concetti di violenza situazionale o violenza comune di coppia (Situational, Common couple violence);
  • Gli uomini in coppie che riportavano MFPV e FMPV avevano significativi maggiori problemi di conflitti di lavoro interpersonali e maggiori mesi di disoccupazione rispetto alle coppie senza problemi di MFPV e FMPV;
  • Il numero di mesi di disoccupazione dell’uomo erano significativamente associati con episodi di FMPV;
  • L’impulsività sia degli uomini che delle mogli/partner era significativamente associata con rischi di MFPV e di FMPV;
  • La presenza di eventi negativi nell’infanzia degli uomini era associata con maggiore probabilità di MFPV;
  • Non c’era evidenza che gli effetti della situazione di disoccupazione fossero moderati o esacerbati dai problemi con l’alcol.
Gli autori concludono dicendo che il loro studio illumina su come la disoccupazione maschile ed i problemi di alcol sia negli uomini che nelle donne, insieme ad altri fattori psicologici, contribuiscano nella categoria da loro esaminata a favorire i casi sia di violenza maschile verso le donne che di violenza delle donne verso gli uomini, suggerendo che iniziative per prevenire la disoccupazione possano rappresentare una importante strategia per ridurre i problemi di alcolismo e di violenza tra i partner in gruppi occupazionali ad alto rischio.

6. Battered men. Gli uomini picchiati
Un ulteriore articolo che vogliamo esaminare, tra gli innumerevoli di lingua inglese, che si occupano di violenza tra i generi, anch’esso del 2009, affronta un aspetto particolare e non frequente in letteratura, occupandosi esclusivamente degli effetti sulla salute mentale di pazienti maschi in seguito alla violenza subita dalla partner.55
Il campione è stato costruito tra la popolazione maschile che aveva chiesto assistenza medica in un pronto soccorso di una grande città del sudest degli Stati Uniti. I criteri di inclusione richiedevano che la persona fosse in un rapporto di coppia nell’ultimo anno e che l’età fosse compresa tra i 18 e i 55 anni.
Sono stati analizzati quattro gruppi (coloro che non erano stati coinvolti in episodi di violenza di coppia, coloro che avevano agito violenza unidirezionale, coloro che avevano subito violenza unidirezionale e coloro che erano stati coinvolti in episodi di violenza reciproca all’interno della coppia), con riferimento ai sintomi di salute mentale, all’uso di tabacco, alcol e droghe. Oltre ai dati socio-demografici, sono state raccolte informazioni – tramite un questionario somministrato via computer negli stessi locali del pronto soccorso – relativamente a depressione, stress traumatico, suicidalità e abuso di alcol e sostanze, nonché informazioni generali sulla salute.
Dei 1.669 uomini che avevano cercato assistenza sanitaria non urgente, 1.122 (67%) hanno aderito alla richiesta di essere coinvolti nella ricerca e 1.026 hanno completato il questionario. Di questi, 712 dodici (63%) erano in un rapporto di coppia nell’anno precedente; 261 (35%) erano stati coinvolti in un qualche episodio di violenza domestica.

Di seguito alcuni dei risultati relativi al campione:
  • La maggior parte erano single, afro-americani e privi di assicurazione sanitaria
  • Erano in genere meno istruiti e con più probabilità di essere disoccupati
  • Avevano una maggiore probabilità di essere separati o divorziati
  • Avevano maggiore probabilità di riportare sintomi da moderati a severi di depressione, disordini da stress post traumatico e suicidalità
  • Avevano una maggiore probabilità di essere coinvolti in altri comportamenti dannosi per la salute, quali fumo, alcolismo, uso di droghe, non uso di cinture di sicurezza e comportamenti sessuali a rischio
  • Il 20% (n=144) dichiarava di essere stato solo vittima della violenza da parte della partner
  • Il 6% (n=40) dichiarava di essere stato solo l’autore della violenza verso la partner
  • L’11% (n=77) dichiarava di essere stato coinvolti in casi di violenza di coppia bidirezionale.
  • Violenza fisica e psicologico/emozionale superavano la violenza sessuale (24,3% vs. 6,7%)
  • I casi in cui veniva dichiarato di essere stato forzato o costretto dalla partner ad avere rapporti sessuali erano maggiori rispetto ai casi in cui veniva dichiarato di avere forzato o costretto la partner ad avere rapporti sessuali, (6,7%; n=48 vs. 4,6%; n=33).
Riguardo alle conseguenze degli episodi di violenza, per il campione in esame, i dati rilevavano:
  • L’entità del coinvolgimento in episodi di violenza era associato con proporzioni crescenti di pazienti che riportavano problemi di salute mentale moderati/gravi;
  • Depressione, disordini da stress traumatico e gradi di suicidalità erano più alti;
  • Coloro che avevano perpetrato o subito più tipi di abuso avevano il numero più alto di sintomi avversi di salute mentale;
  • Le proporzioni di fumatori, consumatori di alcol e di facenti uso di droghe erano allo stesso modo più alti negli uomini vittime di episodi di violenza di coppia.
7. Violenza tra partner e conseguenze per i figli
Un altro aspetto, estremamente interessante - quasi per nulla indagato e che meriterebbe con ogni probabilità una ricerca apposita - è quella delle differenze nella ricaduta sui figli maschi e femmine della violenza cui possono essere esposti in famiglia, a seconda che essa sia esercitata dal padre o dalla madre verso il rispettivo partner.

Dei non molti studi, segnaleremo uno tra i più meticolosi, senza trarre conclusioni ma riportandone solo i risultati. Si tratta del lavoro, del 2006, di Moretti e colleghi, della University of British Columbia in Canada, dal titolo: “Esposizione alla violenza materna o paterna verso il partner e aggressività in ragazze e ragazzi adolescenti”.56

Lo studio dimostra che gli adolescenti che assistono violenza tra i genitori (IPV) sono a maggior rischio di perpetrare a loro volta atti aggressivi e violenti. Essi sono inoltre a rischio di disordine post-traumatico (PTSD). Gli autori esaminano il rapporto fra l'esposizione alla violenza materna e paterna verso il rispettivo partner ed il comportamento aggressivo di ragazzi e ragazze adolescenti verso le madri, i padri, gli amici ed i fidanzati (romantic partners). Inoltre è stata valutata l'influenza di PTSD (Post Traumatic Stress Disorders) tramite il DICA-IV (Diagnostic Interview for Children and Adolescent-IV) sul rapporto fra esposizione a violenza tra i genitori e comportamento aggressivo. I partecipanti erano 63 ragazze e 49 ragazzi di età tra i13 e i 18, ammessi ad interventi correttivi o di valutazione per giovani aggressivi o delinquenti.
Per quanto i ragazzi e le ragazze non differissero relativamente alla loro esposizione alla violenza perpetrata dai padri verso le madri, le ragazze segnalavano livelli elevati di esposizione alla violenza perpetrato dalle madri verso i padri. Il 36% delle ragazze contro il 17% dei ragazzi riportava che la madre “aveva scagliato qualcosa contro il partner” almeno alcune volte e il 17% delle ragazze ma nessun dei ragazzi segnalava che la madre “aveva picchiato il partner” almeno alcune volte. In contrasto, il 42% delle ragazze e il 19% dei ragazzi segnalavano che il padre “aveva scagliato qualcosa contro la partner” almeno alcune volte; il 36% delle ragazze e il 19% dei ragazzi segnalavano che il padre “aveva picchiato la partner” almeno alcune volte .
I ragazzi e le ragazze non differivano nell’aggressione fisica verso le madri o i padri; tuttavia, i ragazzi segnalavano un coinvolgimento significativamente maggiore in aggressioni fisiche verso gli amici mentre le ragazze segnalavano un coinvolgimento significativamente maggiore in aggressioni fisiche verso i loro “romatic partners”.
Si rimanda all’articolo originale per un confronto con la scarsa letteratura esistente e le considerazioni delle autrici sui possibili fattori e conseguenze di questo aspetto del fenomeno “violenza in famiglia”.

Pensiamo sia possibile concludere con questo studio l’esame della letteratura straniera relativamente al tema che ci siamo proposti di indagare. Possiamo dunque passare ora ad una breve disamina della situazione italiana, per poi provare a trarre alcune sintetiche e provvisorie conclusioni.

8. Violenza femminile. La situazione italiana
Come dicevamo in apertura, contrariamente a quanto avviene in ambito americano, ma non solo, sconcertantemente inesplorato è da noi il fenomeno della violenza femminile. Non esistono indagini nazionali, e pochissime sono le ricerche di un qualche spessore metodologico e di rappresentatività.
Una straordinaria opportunità persa può essere considerata l’indagine sulla violenza maschile verso le donne, commissionata nel 2006 all’ISTAT dal Ministero delle Pari Opportunità.57 L’indagine è consistita in 25.000 interviste telefoniche volte a rilevare se l’intervistata aveva subito, nel corso della sua vita e dell’ultimo anno, una qualche forma di violenza psicologica, fisica o sessuale.
La metodologia e le modalità di aggregazione e presentazione dei risultati dell’indagine possono linearmente rientrare nel “Metodo 2” presentato da Straus per negare o semplicemente occultare l’esistenza, l’entità e le caratteristiche della violenza femminile: evitare di ottenere o analizzare dati sulla violenza femminile.
Se si fosse applicata nell’indagine ISTAT la Conflict Tactic Scale (ma anche altri strumenti d’indagine) chiedendo, oltre a quante volte si è subito un determinato atto violento da parte del partner, quante volte si è compiuto lo stesso atto violento nei confronti del partner, avremmo avuto una straordinaria auto-rappresentazione dell’agito violento femminile nel nostro Paese. Si è preferito non seguire questa strada, per motivi che non è poi troppo difficile immaginare.
L’assenza di una qualsiasi riferimento alla tematica del “controllo”, come suggerito da Johnson, o dell’insieme dei fattori che interagiscono nella definizione e nel manifestarsi di questa problematica, indebolisce ulteriormente la capacità euristica dell’indagine.
Come riporta Fabio Nestola:58 “Oltre ai quesiti su violenza fisica (7 domande) e sessuale (8 domande), il questionario ISTAT lascia uno spazio ben maggiore alla violenza psicologica (24 domande). Alcuni dei quesiti, però, sembrano finalizzati a raccogliere un numero enorme di risposte positive, descrivendo normali episodi di conversazione sicuramente accaduti a chiunque, che risulta difficile configurare come «violenza alle donne».
Facciamo alcuni esempi, tratti proprio dal questionario in oggetto:
• «La ha mai criticata per il suo aspetto?»
• «...per come si veste o si pettina?»
• «...per come cucina?»
• «Controlla come e quanto spende?»
Ai fini statistici non c'è differenza fra un atteggiamento aggressivo e denigratorio ed un consiglio pacato, collaborativo, spesso indispensabile, a volte anche migliorativo.”
Come sostiene Elizabeth Badinter, riferendosi ad analoga ricerca francese, “Lo sconcerto aumenta quando si scopre che queste pressioni psicologiche – che ricevono la più alta percentuale di risposte positive – rientrano nel coefficiente totale della violenza coniugale, assieme agli ‘insulti e minacce verbali’, al ‘ricatto affettivo’ e sullo stesso piano delle ‘aggressioni fisiche’ e dello ‘stupro ed altre prestazioni sessuali forzate!’”.59
Ecco quindi che i risultati dei diversi set di domande vengono aggregati per dare la dimensione complessiva del fenomeno, così come è stata riportata da tutti i media: “In Italia 7.000.000 di donne sono vittime di violenza”(diventate 14.000.000 in un telegiornale nazionale in occasione dell’ultima “festa dell’8 marzo”).
A ciò ha contribuito indubbiamente l’assunzione della prospettiva “di genere”, che vede nel patriarcato – inteso come struttura sociale che educa gli uomini al dominio ed al controllo coercitivo delle donne - la causa fondamentale della violenza domestica e tra partner, nonostante innumerevoli ricerche e studi, tra i quali, in Italia, importante quello di Marco Vantaggiato,60 abbiano dimostrato il carattere prettamente ideologico e metodologicamente erroneo (quando non dannoso per le donne stesse) di tale approccio.
Questa indagine, dunque, nulla ci può dire della violenza femminile, se non – forse - come essa possa esplicitarsi, ed in forma particolarmente agrressiva, anche nella semplice costruzione di una ricerca destinata ad indagare la violenza maschile. Alcuni squarci provengono da alcune tesi universitarie, in genere non pubblicate e quindi di difficile accessibilità, nonché dalle poche pubblicazioni disponibili. Riportiamo in nota alcune tra le più significative.61

Un aspetto molto particolare, ma di rilievo crescente, considerata la dinamica delle separazioni e dei divorzi nel nostro Paese, è esplorato da una indagine della Gesef (Genitori Separati dai Figli), dal titolo: “Violenze in famiglia: Quando la vittima è l’uomo-padre”, pubblicata in Internet nel marzo 2007.
Come dichiarato dalla curatrice, Elvia Ficarra: “L’indagine è stata condotta elaborando le dichiarazioni degli uomini-padri separandi/separati che si sono rivolti allo sportello di ascolto della GESEF, in concomitanza con quanto rilevato dalla documentazione giudiziaria ed amministrativa – laddove disponibile - presentata dai medesimi. L’indagine è stata svolta su 26.800 uomini-padri, nel periodo dicembre 1998 dicembre 2006. La fascia di età del campione in esame è compresa tra 24-59 anni. Il maggior numero di episodi di violenza di più grave intensità subito singolarmente dall’uomopadre si rileva nella fascia di età 35-47. Gli operatori – volontari dell’associazione - addetti all’ascolto sono stati 12”.62
Di questo ponderoso lavoro riporteremo le tre tabelle (rispettivamente le n. 1, 3 e 6 del contributo originario) riguardanti la violenza fisica, psicologica e sessuale (ma uno sguardo attento merita anche quella della violenza economica, in genere non contemplata in altre indagini).

Tab. 8 - Percentuali di uomini-padri vittime di episodi di violenza fisica da parte della partner, nel periodo di convivenza e nel periodo successivo alla separazione della coppia.



Tab. 9 – Percentuali di uomini-padri vittime di episodi di violenza psicologica da parte della partner, nel periodo di convivenza e nel periodo successivo alla separazione della coppia.


Tab. 10 - Percentuali di uomini-padri vittime di episodi di violenza sessuale da parte della partner, nel periodo di convivenza e nel periodo successivo alla separazione della coppia.


Come si può notare, le violenze fisiche subite dai maschi-padri tendono a decrescere dopo la separazione, mentre subiscono un'impennata quelle psicologiche. Del resto, alcuni degli eventi classificati come “Violenza sessuale” avrebbero probabilmente trovato collocazione più opportuna all’interno della categoria “Violenza psicologica”.
I limiti di tale indagine, per altri versi formidabile per la luce che lancia su un fenomeno del tutto inindagato, riguardano essenzialmente gli aspetti metodologici, non completamente trasparenti, ed il fatto di non essere stata pubblicata su riviste scientifiche, le quali, tramite i reviewer (o i comitati editoriali), di tali aspetti, appunto, si fanno garanti.
Come per l’indagine Istat sulla violenza femminile, del tutto inesplorato è l’aspetto della volontà di controllo o meno esercitata dalla partner, unico elemento che consenta, a nostro modo di vedere, di distinguere l’abuso dalla dialettica, anche accesa e talvolta con elementi di aggressività, tra partner. Anche in questo caso può essere considerato un’occasione persa il non aver chiesto se e quante volte la vittima avesse esercitato la stessa forma di violenza nei confronti della partner e chi avesse dato inizio all’atto violento. Pur trattandosi di un campione del tutto particolare, in quanto in genere caratterizzato da altissime dosi di conflittualità, aver impostato in maniera maggiormente scientifica e meno “schierata” l’indagine ne avrebbe di molto favorito la capacità di fornire elementi conoscitivi importanti, nel desolante panorama della ricerca nazionale.
Uno studio caratterizzato da maggiore rigore metodologico - pur se non scevro da premesse e considerazioni ideologiche – è quello svolto sulla violenza familiare, nel 2006, in provincia di Verona.63 Un esempio raro, in effetti, nella scarsa letteratura italiana sull’argomento. Contrariamente a molte ricerche – anche tra quelle straniere precedentemente esaminate – lo studio di Verona “si distingue assolutamente per la caratteristica di riportare una casistica imponente basata – senza estrapolazione alcuna – su dati di elevata attendibilità, essendo il frutto di registrazioni effettuate da agenzie formali, nell’ambito di percorsi ufficiali”.
Sul totale di 2.380 casi di violenza domestica segnalati nel 2006 (con 2.301 vittime, su una popolazione di 826.582 abitanti) da diverse fonti di indagine (Pronto Soccorso, Polizia e Carabinieri, Procura, Sezione Famiglia del tribunale civile), la ricerca analizza i 1.049 fascicoli o procedimenti aperti segnalati dalla Procura della Repubblica (44,1% del totale con 987 vittime).
Come si può capire, anche in questo caso, se usassimo la teorizzazione di Johnson, saremmo con ogni probabilità nella tipologia dell’”Intimate terrorism”. Sappiamo quindi che i risultati tenderanno a sovrarappresentare le violenze più gravi, caratterizzate da forti dinamiche di controllo sull’altro, ed a sottorappresentare altri tipi di violenza meno controllanti. Ciò non toglie rilevanza ed interesse - al contrario - alla ricerca, che analizza in modo dettagliato i seguenti aspetti:
  • Nazionalità dei soggetti coinvolti e distribuzione dei titoli di reato
  • Generalità e caratteristiche degli autori in rapporto alla nazionalità
  • Generalità e caratteristiche delle vittime in rapporto alla nazionalità.
Estrapoleremo dal lavoro solo quei dati in grado di fornire una qualche informazione sul tema della violenza femminile.

a) Autori
  • Dei 976 autori di violenza identificati, 716 (73,9%) erano maschi e 260 femmine (26,0%). Commentano gli autori della ricerca: “Quest’ultima percentuale si presenta di grande interesse, in quanto appare di molto superiore a quella che è la componente femminile della devianza criminale, di solito non oltre il 10-15% ed anche al ruolo passivo usualmente attribuito alla donna nelle violenze domestiche”.
  • Fra i 742 italiani autori di violenza, i maschi erano 538 (72,5%) e le femmine 204 (27,4%).
  • Fra i 223 stranieri i maschi erano 168 (75,3%) e le femmine 55 (24,6%).
b) Vittime
  • Delle 987 vittime, relative ai 1.049 casi, 667 (67,5%) erano femmine e 307 (31% ) maschi. Di 13 (1,3%) non viene specificato il sesso.
  • Fra i 756 italiani vittime di violenza, più del 65% erano femmine e quasi il 35% erano maschi.
  • Fra i 231 stranieri, il 74,2% erano femmine, il 20,2% maschi; nel 5,6% dei casi il sesso era indeterminato.
Abbiamo riassunto i dati, forniti nello studio in forma descrittiva ed in qualche caso disomogenea, nella tabella seguente.

Tab. 11 - Autori e vittime di violenza domestica per nazionalità e sesso. Provincia di Verona, anno 2006.


* Dato da noi ricavato per differenza. Abbiamo lasciato invariate le percentuali **Il dato è così riportato nello studio. Non si è ritenuto di dover ricostruire il numero di casi I dati evidenziano dunque, in questo studio, una percentuale niente affatto trascurabile di donne autrici di violenza domestica (oltre il 27% tra i soggetti italiani) ed una ancor più rilevante percentuale di uomini vittime di violenza domestica (quasi il 35% tra i soggetti italiani). Ovviamente tra questi casi rientrano fenomeni ulteriori e per certi versi inesplorati come gli abusi verso gli anziani (elderly abuse) ed i bambini (child abuse and neglect) che poco o nulla hanno a che fare con la violenza “di genere”. Rilevanti differenze si riscontrano anche relativamente alla componente razziale ed etnica, a conferma dell’estrema sfaccettatura di questo fenomeno, di fatto inafferrabile se non indagato con strumenti di ricerca estremamente raffinati e scevri, per il possibile, da pregiudizi che possono avere gravi ricadute sull’efficacia delle politiche sia di prevenzione che di intervento.
Gli stessi autori, nel rimarcare la “natura proteiforme del fenomeno”, avanzano una ipotesi che meriterebbe di essere sviluppata, cosa che non è però possibile nell’economia del presente lavoro. Dicono “...la prevalenza degli aspetti di sopraffazione psicologica ed economica fra gli italiani, la più elevata incidenza di maschi vittime, l’evidente criticità delle relazioni tra quarantenni, la vulnerabilità dei soggetti sopra i 65 anni può segnalare la transizione in atto ad una ‘famiglia senza padri’, ad un gruppo ristretto senza gerarchie precostituite, dove anche l’anziano può frequentemente divenire oggetto di abuso” (p. 12). Pur non essendo chiaro se questa assenza paterna sia giudicata positivamente o negativamente, o semplicemente venga registrata quale variabile utile a declinare la diversità dei fenomeni che entrano a comporre la proteiforme realtà della violenza domestica, l’osservazione merita certo di essere segnalata, anche per orientare future ricerche.

Considerazioni conclusive
In conclusione di questo percorso fra teorie, citazioni e dati, possiamo provare a tirare qualche somma, considerando che l’obbiettivo condiviso dovrebbe essere quello della riduzione della violenza, comunque ed ovunque si manifesti.
Riguardo alle domande da cui questo lavoro è partito, ossia cosa sia la violenza femminile e come se ne parli, possiamo dire che per quanto riguarda l’Italia a queste domande, semplicemente, non è possibile dare una risposta, in quanto non esistono di fatto ricerche sufficientemente ampie e/o metodologicamente adeguate. Stando all’unica ricerca specifica - molto importante e metodologicamente corretta - che abbiamo riportato, ossia quella su Verona, possiamo dire che, con ogni probabilità, il fenomeno della violenza femminile nel nostro Paese è molto sottovalutato, sia dal punto di vista quantitativo che da quello qualitativo.

Diversa è la situazione per quanto riguarda la letteratura scientifica straniera.
Come abbiamo visto, le ricerche qui abbondano, ed alcune considerazioni sono possibili. Il primo aspetto che si evidenzia è – in confronto al quasi nulla italiano - la diversità dei settori disciplinari che, dal rispettivo punto di vista, indagano il fenomeno: sociale, politico, criminologico, giuridico, sanitario, sociologico... Tale pluralità di approcci, ha dato vita, a sua volta, a metodologie così diverse ed in alcuni casi così ideologicamente orientate, da produrre - sullo stesso fenomeno indagato - risultati anche diametricalmente opposti.

Su questo ha certo influito la mancanza di una definizione condivisa di violenza, così che quello che è senz’altro un atto classificato come violento da una indagine può essere trascurato in un’altra ricerca e, in moltissimi casi, risultare del tutto irrilevante dal punto di vista giuridico e/o penale.
Un primo passo necessario è quello di rinunciare definitivamente all'ottica ideologica di gender che ha dominato la ricerca negli ultimi 40 anni, a partire dalla stessa definizione di violenza. In alcuni casi essa è stata così dilatata da comprendere in sé qualsiasi forma di critica o conflittualità (addirittura percepita come possibile, senza che sia stata seguita da nessun agito) che, inevitabilmente, si manifestano in qualsiasi forma di convivenza e di relazione.64 Ed è tale definizione che, pressoché unica, trova ampia ospitalità sui media condizionando l’orientamento e la percezione dell’opinione pubblica.
Quella definizione di violenza ha un triplice e inemendabile difetto.
a) Parte dal presupposto, contraddetto da molti dati, che solo la violenza maschile sia rilevante, mentre quella femminile sarebbe residuale o comunque indotta dalla prima.
b) Fa confluire in un unico contenitore fenomeni molto diversi per importanza e conseguenze sulle persone non distinguendo con chiarezza, ad esempio, le violenze vere e proprie dalla normale dialettica di coppia. Il risultato di questo modo di procedere è paradossale, nel senso che mentre si fomenta l’allarme sociale si rischia di abbassare le difese di fronte alla violenza vera perché se tutto è violenza, niente è violenza ed estremamente problematico diventa approntare interventi specifici. In ragione di un pregiudizio antimaschile, inoltre, tale approccio trascura di indagare altri fenomeni rilevanti. Si pensi, ad esempio, alle violenze psicologiche rappresentate dai frequentissimi casi di false denunce di abuso verso i figli65 o al ricatto economico verso il marito per permettergli una maggiore frequentazione dei figli in occasione di separazioni e divorzi.
c) Trascura l’analisi dell’interconnessione con i contesti socioeconomici, culturali, e demografici in cui si situa. I dati provenienti dal Bureau of Justice Statistics americano (ma anche dall’Istat, come abbiamo dimostrato in un precedente lavoro66), nonché dalle ricerche maggiormente rigorose, rivelano in maniera inequivocabile che i numeri della violenza domestica e nella sfera affettiva, similmente ad altri crimini, sono interconnessi con aspetti socioeconomici, culturali e demografici di specifici gruppi sociali, particolarmente a rischio e a fenomeni di grave disagio sociale. Povertà, disoccupazione, volatilità della relazione, storie pregresse di violenza subita (specialmente nell’infanzia) ed agita, nonché uso di alcol e droghe sono tutti fattori che aumentano il rischio di violenze tra partner, ma anche di comportamenti criminali in generale e che non possono essere considerati rappresentativi della “natura” maschile.

Non definire le diverse tipologie, trascurare la violenza compiuta dalle donne e analizzare la violenza fuori dai contesti in cui si situa ha come unico possibile esito la criminalizzazione di un genere, il maschile, come tale. Non solo, ignorare la realtà in favore di opzioni ideologiche, porta come conseguenza anche la persistente inefficacia dei rimedi finora proposti.

Come sostiene un tenente di polizia in pensione del Massachusetts, in un accorato saggio che consigliamo vivamente di leggere,67 “Solo coloro che non hanno mai studiato o ignorano la storia possono pensare che uomini e donne siano violenti in misura uguale.... Tutti i dati sugli omicidi in tutte la società ed in tutti i tempi dimostrano che le donne commettono molto meno violenza letale degli uomini. Tuttavia, tutti gli studi contemporanei dimostrano che la violenza domestica, così come oggi viene definita, non è nella maggior parte dei casi grave o letale, né corrisponde a quello che la maggior parte delle persone considerano essere un comportamento violento”. (p. 17).

Assimilare la critica alla pettinatura (come nell’indagine Istat del 2006) alla ripetuta violenza fisica o allo stupro, non è solo metodologicamente errato e concettualmente disonesto;68 questa assimilazione finisce anche col determinare una profonda inefficacia delle politiche di prevenzione, penalizzando proprio le categorie più colpite dalla vera violenza fisica o sessuale, come innumerevoli studi oramai dimostrano. Assimilare il conflitto familiare alla violenza domestica, insomma, non serve alla causa di ridurre quest’ultima.69

I dati disponibili, seppure risentano della carenza di una definizione univoca del concetto di violenza e del conflitto tra approcci ideologicamente orientati, sembrano comunque dimostrare che:
a) esiste un'innegabile violenza maschile molto più letale di quella femminile, ma che in valore assoluto si tratta pur sempre, e per fortuna, di numeri statisticamente piccoli. È importante leggere sempre i dati percentuali in rapporto alle relative occorrenze. Se è vero infatti che l’omicidio è la forma estrema e più grave di comportamento criminale, e che nel 70% dei casi le vittime sono donne, è altrettanto vero che esso è, fortunatamente, la causa di morte in assoluto meno frequente. Gli ultimi dati Istat, relativi al 2003, ci informano che le morti femminili per omicidio sono state in quell’anno lo 0,05% delle morti femminili complessive e l’1,73 delle morti femminili per cause esterne (pari a 178 donne uccise – non solo da maschi , contro 470 maschi uccisi, quasi sempre - ma non solo - da altri maschi).70 Allo stesso modo il Bureau of Justice Statistics ha stimato nel 2007 che, in tutti gli Stati Uniti, l’occorrenza di omicidi di partner sia di 1.181 donne e 329 uomini per anno.71
b) I fatti di violenza domestica non letali o comunque meno gravi, coinvolgono come parti attive le donne in misura molto significativa, pari o di poco superiore a quella dei maschi.

La violenza domestica e nella sfera affettiva è fenomeno e crimine complesso, multidimensionale, più di molti altri ed esige approcci altamente specifici e metodologie raffinate. Abbiamo visto come due concetti fondamentali siano la volontà di controllo e gli aspetti di contesto (storia personale, ambiente socioculturale ecc.), ma abbiamo anche visto come tali variabili quasi mai siano presi compiutamente in esame. Le stesse ricerche hanno rivelato la necessità e l’urgenza di definire un approccio metodologico unitario, che sappia cogliere ed esplorare il fenomeno in tutte le sue variegate sfaccettature, al fine di impostare le più opportune politiche di prevenzione, di intervento e di sostegno.

Tornando allo specifico di questo lavoro, cioè al fatto che anche le donne possano essere e siano capaci di violenza, in generale e nello specifico verso il proprio partner, ciò è – ancor prima che accertato dalle statistiche – confermato dal dato di esperienza per l’appartenere la femmina, insieme al maschio - in tutte le declinazioni di orientamento sessuale che vogliano decidere di giocarsi nel corso della loro esistenza - al genere umano, del quale condivide pregi e difetti; certo, per quanto riguarda l’esercizio della violenza, con caratteristiche specifiche di genere, che ancora aspettano di essere compiutamente indagate.

Note
1CDC, "Physical Dating Violence among High School Students. United States, 2003", MMWR 55 (2006): 532-535. Disponibile all’indirizzo: http://www.cdc.gov/mmwr/preview/mmwrhtml/mm5519a3.htm.
2 M.S. Fiebert, "References Examining Assaults by Women on their Spouses or Male Partners: An Annotated Bibliography," Sexuality & Culture 8, no. 3 (2004): 140-176.
3 Disponibile all’indirizzo: http://www.csulb.edu/~mfiebert/assault.htm.

4 D.G. Saunders, "Are Physical Assaults by Wives and Girlfriends a Major Social Problem?", Violence Against Women 8, no. 12 (2002): 1.424-1.448.
5 S.K. Steinmetz, "The Battered Husband Syndrome", Victimology 2, no. 3-4 (1977): 499-509.
6 L. Nisonoff e I. Bitman, "Spouse Abuse: Incidence and Relationship to Selected Demographic Variables", Victimology 4, no. 1 (1979): 131-140.
7 M.A. Straus, "Victims and Aggressors in Marital Violence", American Behavioral Scientist 23, no. 5 (1980): 681-
704.
8 Risulta impossibile fare qui una rassegna dei vari strumenti utilizzati nelle numerose indagini, in quanto il tema della violenza tra partner – o tra generi – investe numerosi campi di ricerca e di intervento, come vedremo. Dalla sociologia, alla salute pubblica, alla criminalità, ai servizi sociali ecc., ognuno dei quali ha elaborato tecniche e metodologie proprie. Sulla CTS (Conflict Tactic Scale) vale comunque la pena di soffermarsi, in quanto rappresenta lo strumento maggiormente utilizzato, per sé o nelle sue numerose varianti. La CTS consiste in un elenco di azioni che il membro di una famiglia può compiere in relazione ad un altro membro. I comportamenti indagati partono dalle azioni meno coercitive (es. discutere un argomento con l’altro), passando poi a quelli maggiormente coercitivi e aggressivi verso la fine della lista (ad esempio usare schiaffi e spintoni). In una seconda versione sono stati aggiunti anche comportamenti più gravi come la violenza sessuale e la violenza fisica grave e amplificati alcuni eventi (come l’aggressione verbale) Viene quindi richiesto quante volte ogni evento si sia verificato nell’ultimo anno, partendo da “Mai” fino a “Più di 20 volte”. L’aspetto più rilevante di questo strumento è che non si limita a chiedere quante volte sia stata agita una determinata azione dal partner, ma anche quante volte la si sia subita . Così, se il focus della ricerca è la relazione tra marito e moglie, coloro che rispondono al questionario debbono rispondere quanto spesso hanno agito un determinato comportamento verso la moglie, ma anche quante volte la moglie ha tenuto lo stesso comportamento nei loro confronti, e viceversa.
9 S.K. Steinmetz, "A cross-cultural comparison of marital abuse", Journal of Sociology and Social Welfare 8, no. 2 (1981): 404-414.
10 M.R. Laner e J. Thompson, "Abuse and Aggression in C
ourting Couples", Deviant Behavior 3 (1982): 229-244.
11 M.L. Bernard e J.L. Bernard, "Violent Intimacy: The Family as a Model for Love Relationships", Family Relations 32 (1983): 283-286.

12 W.G. Goldberg e M.C. Tomlanovich, "Domestic Violence Victims in the Emergency Department", JAMA 251 (1984): 3.259-3.264.
13 K.E. Lane e P.A. Gwartney-Gibbs, "Violence in the context of dating and sex", Journal of Family Issues 6, no. 1 (1985): 45-59.
14 J.E. Deal e K.S. Wampler, "Dating Violence: The Primacy of Previous Experience", Journal of Social and Personal Relationships 3 (1986): 457-471.

15 G. Margolin, "The Multiple Forms of Aggressiveness between Marital Partners: How Do We Identify Them?", Journal of Marital and Family Therapy 13, no. 1 (1987): 77-84.
16 M. Brinkerhoff e E. Lupri, "Interspousal Violence", Canadian Journal of Sociology, 13, (1988): 407-434.

17 J. Archer and N. Ray, "Dating Violence in the United Kingdom: A Preliminary Study", Aggressive Behavior 15, no. 5 (1989): 337-343.
18 L.D. Brush, "Violent Acts and Injurious Outcomes in Married Couples: Methodological Issues in the National Survey of Families and Households", Gender & Society 4 (1990): 57-67.
19 S.B. Sorenson e C.A. Telles, "Self-reports of Spousal Violence in a Mexican-American and Non-Hispanic White Population", Violence and Victims 6, no. 1 (1991): 3-15.
20 J. Bookwala, I.H. Frieze, C. Smith e K. Ryan, "Pre
dictors of Dating Violence: A Multi Variate Analysis", Violence and Victims 7 (1992): 297-311.
21 C.L. Stacy, L.M. Schandel e W.S. Flannery, "It's not all Moonlight and Roses: Dating Violence at the University of Maine, 1982-1992", College Student Journal 28 (1994): 2-2.
22 L. Foo e G. Margolin, "A Multivariate Investigation of Dating Aggression", Journal of Family Violence 10 (1995): 351-377.
23 M. Corrado, M.J. George, E. Loxam, L. Jones e D. T
emplar, "Aggression in British Heterosexual Relationship: a Descriptive Analysis", Aggressive Behavior 22 (1996): 401-415.24 A.A. Ernst, T.G. Nick, S.J. Weiss, D. Houry e T. Mills, "Domestic Violence in an Inner-city ED", Annals of Emergency Medicine 30 (1997): 190-197.
25 E. Grandin e E. Lupri, "Intimate Violence in Canada an
d the United States: A Cross-national Comparison", Journal of Family Violence 12, no 4 (1997): 417-443.
26 A riprova di tale atteggiamento riporta uno degli obiettivi della Men’s Defense Association del 2001, che è quello “di proteggere la tradizionale immagini dei padri, della famiglia e della virilità dall’assalto violento del pensiero “politicamente corretto” che gli uomini s
ono malvagi, violenti e superflui nello sviluppo dei figli”. Saunders, cit. p. 1.425.
27 D.G. Saunders, cit. p. 1.426.

28 M.E. Wolfgang, "An Analysis of Homicide-suicide", Journal of Clinical and Experimental Psychopathology 19, no. 3 (1958): 208-218.
29 M.A. Straus e K. Scott, "Gender Symmetry in Partner Violence: The Evidence, the Denial, and the Implications for Primary Prevention and Treatment", Prevention of Partner Violence. Washington DC: American Psychological Association, p. 43. Si è qui proceduto ordinare per data i vari studi.
30 J. Archer, "Sex Differences in Aggression Between Heterosexual Partners: a Meta-analytic Review", Psychological Bulletin 126, no. 5 (2000): 651-680.
31 Le tabelle riportate nel presente lavoro seguono una propria numerazione progressiva; vengono comunque sempre riportati nel testo il numero della tabella nel lavoro originale e la pagina in cui appare.

32 K.L. Anderson, "Perpetrator or Victim? Relationships between Intimate Partner Violence and Well-being", Journal of Marriage and the Family (2002): 851-863.
33 J.E. McCarroll R.J. Ursano, Z. Fan e J.H. Newby, "Patterns of Mutual and Nonmutual Spouse Abuse in the US Army (1998-2002)", Violence and Victims 19, no. 4 (2004): 453-468.
34 S.L. Williams and I.H. Frieze, "Patterns of Violent Relationships, Psychological Distress, and Marital Satisfaction in a National Sample of Men and Women", Sex Roles 52, no. 11 (2005): 771-784.
35 J.E. Stets e S.A. Hammons, "Gender, Control, and Marital Commitment", Journal of Family Issues 23, no. 1 (2002): 3-25.
36 P. Kernsmith, "Exerting Power or Striking Back: A Gendered Comparison of Motivations for Domestic Violence Perpetration", Violence and Victims 20, no. 2 (2005): 173-185.

37 M. Schulman, "A Survey of Spousal Violence against Women in Kentucky", Whashington D.C.: U.S. Government Printig Office 792791 (1979).
38 H. Johnson e V.F. Sacco, "Researching Violence against Women: Statistics Canada's National Survey", Canadian Journal of Criminology 37, no. 3 (1995): 281-304.
39 M.R. Durose et al., "Family Violence Statistics: Including Statistics on Strangers and Acquaintances", US Dept of Justice; Bureau of Justice Statistics; United States (2005). Accessibile all’indirizzo: http://www.ojp.usdoj.gov/bjs/pub/pdf/fvs.pdf.

40 P. Kernsmith, Exerting Power or Striking back, cit.
41 I.H. Frieze, "Female Violence Against Intimate Partners: An Introduction", Psychology of Women Quarterly 29, no 3 (2005): 229-237.
42 L.S. Williams, I.H. Frieze, "Patterns of Violent Relationship, Psychological Distress, and Marital Satisfaction in a National Sample of Men and Women", Sex Roles 52, no 11 (2005): 771-784.
43 N. Graham-Kevan e J. Archer, "Investigating three Explanations of Women's Relationship Aggression", Psychology of Women Quarterly 29, no 3 (2005): 270-277

44 M. Carney, F. Buttell e D. Dutton, "Women who Perpetrate Intimate Partner Violence: A Review of the Literature with Recommendations for Treatment", Aggression and Violent Behavior 12, no. 1 (2007): 108-115.
45 S. Swan, D. Snow, T. Sullivan, L. Gambone e A. Fields, "Technical Report for “An Empirical Examination of a Theory of Women’s use of Violence in Intimate Relationships.”," Disponibile all'indirizzo: http://www.ncjrs.gov/App/publications/Abstract.aspx?id=208611.

46 M.P. Johnson, "Conflict and Control. Gender Symmetry and Asymmetry in Domestic Violence", Violence Against Women 12, no 11(2006): 1.003-1.018.
47 M.P. Johnson, "Patriarchal Terrorism and Common Couple Violence: Two Forms of Violence against Women", Journal of Marriage and the Family (1995): 283-294.
48 Molti studiosi e ricercatori hanno posto con forza la necessità di collocare la problematica della violenza tra i generi all’interno della Teoria del conflitto. Non è possibile, per ragioni di spazio, affrontare in questo lavoro tale questione, pure cruciale. Possiamo solo accennare che da sempre i “teorici del conflitto” hanno presentato lo stesso come elemento inevitabile di qualsiasi associazione umana, sostenendo che senza il cambiamento indotto dal conflitto qualsiasi unità sociale - sia essa una nazione, una associazione o una famiglia – corre un elevato rischio di collasso. Altri approcci, compreso quello dei professionisti che si occupano dei problemi della famiglia, vedono il conflitto come qualcosa di negativo e da evitare assolutamente.
Evidentemente una valutazione – almeno a volte – positiva del conflitto, come fattore dinamizzante ed evolutivo, comprendente inesorabilmente anche più o meno blande forme di aggressività e/o di uso della forza, porterebbe ad una lettura completamente diversa di alcuni risultati, ed alla stessa rimodellazione delle indagini. Risulta evidente a buon senso che uno sculaccione dato dal padre alla figlia (o dalla madre al figlio) per una mancanza grave può essere letto come una modalità educativa all’interno di una teoria e di una prassi sociale che considerino accettabile tale comportamento, mentre sarà inesorabilmente letto come “violenza di genere” se si porrà la neutrale domanda (che il/la rispondente dovrà barrare con un “sì” o con un “no”): “Tuo padre/madre ti ha mai picchiata/o?”. Sulla teoria del conflitto all’interno della sfera affettiva: J.H. Scanzoni, "Marital Conflict as a Positive Force," in Sexual Bargaining: Power Politics in the American Marriage, a cura di J. H. Scanzoni. New Jersey: University of Chicago Press, (1982): 61-102.

49 Ecco come era formulata una domanda tipo: “Lui ti ha (tu hai) mai schiaffeggiato o spinto (lui) o usato altri tipi di forza fisica con te (lui)?”
50 K.M. Bell e A.E. Naugle, "Intimate Partner Violence Theoretical Considerations: Moving towards a Contextual Framework", Clinical Psychology Review 28 (2008): 1.096-1.107.
51 K.S. Menard, A.L. Anderson e S.M. Godboldt, "Gender Differences in Intimate Partner Recidivism: A 5-Year Follow-Up", Criminal Justice and Behavior 36, no. 1 (2009): 61-76.
52 Le quattro variabili considerate per definire “grave” l’episodio sono state: minaccia di ferite o di morte, ricorso a cure mediche, tentativo di strangolamento, uso di armi.
53 E. Reed, H. Amaro, A. Matsumoto e D. Kaysen, "The Relation between Interpersonal Violence and Substance Use among a Sample of University Students: Examination of the Role of Victim and Perpetrator Substance Use", Addictive Behaviors 34, no. 3 (2009): 316-318.
54 C.B. Cunradi, M. Todd e M. Duke, "Problem Drinking, Unemployment, and Intimate Partner Violence among a Sample of Construction Industry Workers and their Partners", Journal of Family Violence 24, no. 2 (2009): 63-74.
55 K.V. Rhodes et al., "Intimate Partner Violence and Comorbid Mental Health Conditions Among Urban Male Patients", The Annals of Family Medicine 7, no. 1 (2009): 47-55.
56 M.M. Moretti et al., "Exposure to Maternal vs. Paternal Partner Violence, PTSD, and Aggression in Adolescent Girls and Boys", Aggressive Behavior 32 (2006): 385-395.
57 ISTAT, "Violenza e maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia”. Presentazione, risultati e metodologia disponibili all’indirizzo: http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20070221_00/.
58 F. Nestola, "Violenza domestica: quello che l'ISTAT non dice," in L'indipendente . Disponibile all'indirizzo: http:// lindipendente.splinder.com/post/19780695/Violenze+in+Famiglia:+quello+c.


59 E. Badinter, La strada degli errori. Il pensiero femminista al bivio, Milano: Feltrinelli, 2004.
60 M. Vantaggiato, "Violenza domestica: la fallacia dei paradigmi di genere". Disponibile all’indirizzo: http://www.psicolex.it/Violenza%20domestica-%20Dott.%20Vantaggiato.pdf.
61 G. Bonfiglio e M. Vergenelli, "La violenza sessuale delle donne sul minore maschio", Psicologia sociale 1 (1993); P. De Pasquali, "L'orrore in casa. Psico-criminologia del parenticidio", Franco Angeli, 2007; K. Giannecchini, "Studio psicologico sul comportamento omicida femminile e relative implicazioni cliniche" (Tesi, 2007-2008); R. Lemmo, "Gli uomini... il secondo sesso? Considerazioni mascoliniste sulla condizione dell'uomo" (Tesi 2003-2004); A. Luzzago e C. Barbieri, "La relazione nelle coppie perverse come matrice di violenza coniugale: considerazioni criminologiche su una casistica", Rassegna italiana di criminologia 1, no. 1 (2007): 81- 94; P. Parte, "Una bibliografia ragionata su: la Violenza intrafamiliare," Terapia Familiare 46 (1994): 15-38.
62 E. Ficarra (cur.), "Violenze in famiglia. Quando la vittima è l’uomo padre", Osservatorio famiglie separate – GESEF. Disponibile all’indirizzo: http://www.gesef.it/doc/Violenze_in_famiglia_con_tabellegrafici.doc

63 M. Bacciconi, P. Martucci, S. Bertolaso, P. Erba, e G. Papalia, "La violenza in ambito familiare nella provincia di Verona: considerazioni criminologiche".Ispel (2007?). Disponibile all'indirizzo: http://www.ispesl.eu/osservatorio/pdf/onvd-doc11.pdf.
64 E per capire come questo concetto si sia affermato all’interno della cultura e sia stato subdolamente inserito nei documenti degli organismi internazionali irrinunciabile resta il saggio: A. Nucci, "La donna a una dimensione: femminismo antagonista ed egemonia culturale", (Milano: Marietti, 2006).
65 Si veda l’esaustiva documentazione sul sito: http://www.falsiabusi.it/.
66 E. Pelizzari, "Violenza reale e ideologia di genere. Le cause di morte in Italia. Uno sguardo ai dati," Disponibile all'indirizzo: http://forum.panorama.it/viewtopic.php?id=9005.
67 R. Davis,"Domestic Violence: Unintended Social Implications", Disponibile all'indirizzo: http://www.policeone.com/pdfs/Unintended_Social_Implications.pdf.
68 La giurisprudenza, ad esempio, richiede che per la sussistenza del reato di maltrattamento (art. 572 del c.p.) si debba essere in presenza di una ripetizione della condotta nel tempo e non di un fatto estemporaneo.
69 Ad esempio, in California, l’introduzione dell’obbligo di arresto – ci ricorda sempre il nostro tenente in pensione del Massachusetts - ha determinato un notevolissimo incremento degli arresti femminili. “In California, i numeri di maschi arrestati per violenza domestica è aumentato del 37%, mentre gli arresti femminili sono aumentati del 446%” (p. 24).
70 E. Pelizzari, cit. 71K.S. Menard, A.L. Anderson, e S.M. Godboldt, "Gender Differences in Intimate Partner Recidivism: A 5-Year Follow-Up", Criminal Justice and Behavior 36, no 1 (2009):61-76.




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